lunedì 7 marzo 2016

Il Sole24Ore. Vivere senza pena di morte, di Gianfranco Ravasi


Alle mie spalle, nella cosiddetta «Sala del Prefetto», quando dirigevo la Biblioteca Ambrosiana di Milano, si levava una libreria interamente occupata dal Fondo Beccaria. In esso, con la segnatura Becc. B. 202, si notava una sorta di reliquia custodita in un astuccio in pelle e con una legatura altrettanto solenne scandita da uno scudo stellato vagamente massonico: era l’autografo, dalla stesura piuttosto tormentata, dell’opera massima di Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene (1764). Il testo, con l’intera sua biblioteca, era passato attraverso gli eredi al presidente della Camera di Commercio e consigliere comunale di Milano Angelo Villa Pernice, un appassionato bibliofilo, la cui vedova aveva donato all’Ambrosiana nel 1910 l’intero patrimonio librario del marito. Ricordo ancora l’emozione con cui i due presidenti Ciampi e Napolitano – in visita a quell’istituzione fondata dal cardinale Federico Borromeo – sfogliarono il manoscritto. L’opera è un po’ alla base della moderna civiltà giuridica: anzi, Napolitano mi aiutò a ricostruire persino l’influsso che questo saggio ebbe su Caterina di Russia e sul suo fallito tentativo di riforma del codice penale zarista.
Questa premessa autobiografica vuole idealmente attestare la personale condivisione dell’appello implicito che regge tutte le pagine del volume di Mario Marazziti della Comunità di S. Egidio che, inseguendo la scia di sangue che nella storia va da Caino al Califfato, spinge «verso un mondo senza pena di morte», come recita il sottotitolo. Il genere letterario di queste pagine è molto fluido ed è simile a un arcobaleno, se vogliamo adottare un simbolo pacifista abusato ma pertinente. Si oscilla, infatti, da un lato tra dati brutali, basati su eventi sconcertanti e cifre impressionanti, e d’altro canto riflessioni articolate e puntuali. Si introducono le voci che escono da quell’oltretomba anticipato che sono le carceri ove i detenuti sono nel limbo dell’inferno e ove si consumerà l’esecuzione capitale, vere e proprie «voci dal silenzio». Si producono i documenti elaborati dall’Onu e da altre istituzioni perché cessi questa barbarie, ma si offre una parallela documentazione della mattanza che continua serena in molti stati, anche in quelli spesso elevati a vessillo di civiltà (leggi gli Usa).
Non ci si appella a vaghi alibi quando si analizza il fenomeno scandaloso dei condannati innocenti, così come non si hanno esitazioni nel coinvolgere in questo dibattito rovente le grandi religioni e le loro ambiguità. E qui entra in scena il grande rischio del fondamentalismo e l’assenza di una corretta ermeneutica dei testi sacri, a partire dalle pagine bibliche. O anche si denunciano certe esitazioni, come nel caso del n. 2267 del Nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica, poi superato dai reiterati interventi contro la pena di morte di s. Giovanni Paolo II, nella linea di una coerente tutela integrale della sacralità della vita, posta – nella concezione religiosa – sotto il sigillo esclusivo della suprema cassazione divina, come suggerisce il celebre asserto biblico su Caino (Genesi 4,15: «Il Signore pose a Caino un segno perché nessuno, incontrandolo, lo colpisse»).
Le rievocazioni storiche nel libro di Marazziti si associano alle testimonianze che grondano umanità, miseria, incubo, ma anche illuminazione, redenzione, speranza: emblematico è il dialogo con Ray Krone, liberato dopo dieci anni di inferno nel braccio della morte di Tucson in Arizona, «uscito innocente, pieno di ferite della vita, ma ancora vivo». Alla genealogia cronologica di questa atroce storia delle esecuzioni di stato, a partire dall’antico Egitto e dal codice di Hammurabi (in esso 25 reati contemplano la pena capitale), giù giù fino all’ultima votazione per l’abolizione di questa prassi, il 27 maggio 2015 nel Nebraska, si unisce un altro curioso elenco, quello dei «tredici modi per vivere senza la pena di morte», pagine da far meditare non solo ai politici ma anche ai molti cittadini che si lasciano abbandonare ai fremiti delle reazioni “di pancia”, spegnendo ogni collegamento con la ragione.
Marazziti non teme anche di affrontare l’altro versante speculare ove sono insediati i familiari delle vittime, senza incorrere nella banalità dell’intervistatore televisivo che col microfono impugnato domanda: «Lei perdona?». È, questo, un altro capitolo del complesso rapporto tra giustizia e amore, tant’è vero che, se è necessario che «nessuno tocchi Caino», è altrettanto decisivo che si stia dalla parte di Abele. Al contrasto senza “se” e senza “ma” alla logica della vendetta proclamata dal truce personaggio biblico Lamek (Genesi 4,23-24: «Uccido un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamek settantasette»), si deve però associare la voce dei profeti che, senza esitazioni, esige che «come acqua scorra il diritto e la giustizia come un torrente perenne» (Amos 5,24).
In questo anno giubilare posto all’insegna della misericordia sarebbe significativa una moratoria per la pena di morte. È, perciò, significativo ascoltare le ragioni che Marazziti, attraverso pagine striate di esperienze personali e di passione, cerca di comporre in un caleidoscopio, scuotendo le coscienze. È questa la vera opposizione contro chi, invece, imbraccia la spada della violenza criminale: è noto, infatti – e la statistica lo conferma – che la pena capitale non è un deterrente al terrorismo o ai delitti di sangue e ai crimini in genere. Un appello, certo, alla giustizia vera, efficace, celere ma anche un impegno a elaborare un sistema educativo che ritrovi il senso trascendente (laicamente e religiosamente) di ogni vita e del suo rispetto. Incisivo è il monito divino proposto nel libro del profeta Ezechiele: «Forse che io, il Signore, ho piacere della morte del malvagio o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?… Io non godo della morte di chi muore» (18,23.32).
Ho iniziato con l’evocazione di Cesare Beccaria e della sua opera più nota. Il personaggio pieno di complessi e tormentato, non di rado incoerente nella vita rispetto alle sue idee, è stato considerato un alfiere dell’Illuminismo anche per le sue frequentazioni testuali europee (da Rousseau a Voltaire, da Montesquieu a Diderot, da Hume a d’Alembert e Helvétius e così via), pur conservando una sua religiosità (aveva come segretario un sacerdote, tale Gaspare Secchi). A lui, dunque, in finale vorremmo lasciare la parola attraverso quel suo scritto fondamentale Dei delitti e delle pene che, però, pubblicò anonimo: «Parmi assurdo, che le leggi che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime, e che per allontanare i cittadini dall’assassinio, ne ordinino uno pubblico». Parole da accompagnare forse con la visione del potente film Decalogo cinque, di Kieslowski (1988) e dell’esemplare Dead Man Walking di Tim Robbins (1996) con una formidabile Susan Sarandon, che incarna la suora paladina contro la pena di morte Sister Helen Prejean (e, forse, ripescando anche il Non uccidere di Claude Autant-Lara del 1961). (Gianfranco Ravasi)
Mario Marazziti, Life. Da Caino al Califfato: verso un mondo senza pena di morte, Francesco Mondadori, Milano, pagg. 253,