giovedì 9 novembre 2017

Massoni Illustri: Antonio De Curtis in arte Totò




Totò nacque a Napoli il 15 febbraio 1898, da una madre single.

C’è chi afferma che fosse figlio del marchese Giuseppe De Curtis, il quale non avrebbe potuto riconoscerlo a causa della contrarietà della sua famiglia; ma secondo altri questa discendenza non è certa, ed è vero invece che nel 1933 sarebbe stato adottato dal marchese Francesco Maria Gagliardi Focas, che gli avrebbe dato il suo nome (è peraltro un fatto accertato che, nel 1924, la mamma di Totò si sposò con Giuseppe De Curtis).
Comunque sia, si dovette arrivare al 1946 perché Antonio De Curtis fosse legalmente riconosciuto come Antonio Griffo Focas Flavio Dicas Commeno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio; Altezza Imperiale, Conte Palatino, Cavaliere del sacro Romano Impero, Esarca di Ravenna, Duca di Macedonia e di Illiria, Principe di Costantinopoli, di Cicilia, di Tessaglia, di Ponte di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, Conte di Cipro e di Epiro, Conte e Duca di Drivasto e Durazzo.
L’atteggiamento del grande attore nei confronti dei propri titoli nobiliari era duplice e scherzoso. Da un lato ci teneva molto, considerandoli una testimonianza da portare avanti perché la memoria storica non andasse perduta; dall’altro era consapevole che nella società contemporanea avevano perso gran parte del loro significato, ed evitò sempre di avvalersene come strumento di autoaffermazione.
Soltanto dopo aver preso parte alla grande guerra il giovane Totò poté intraprendere la carriera del palcoscenico. A partire dal 1922 fu scritturato dal Teatro Umberto di Roma, prima come attore di varietà e poi di rivista; grandi consensi gli vennero dall’interpretazione di scenette nelle quali i suoi personaggi monologavano, cantavano o si intrattenevano scherzosamente con le attrici.
Il giovane e promettente comico riscuoteva grande successo con le donne. Una tragedia lo segnò nel 1931, quando una famosa soubrette innamorata di lui si tolse la vita. Totò ne rimase sconvolto fino al punto di accogliere le spoglie della giovane nella sua tomba di famiglia.
Quattro anni dopo sposò Diana Rogliani, e dalla loro unione nacque la figlia Liliana.
Il grande salto della sua carriera fu l’incontro col cinema, avvenuto nel 1938. Dopo un avvio stentato, il grande successo di pubblico lo avrebbe raggiunto nel dopoguerra.
Complessivamente Totò interpretò 97 film, e il tributo al suo genio comico divenne universale. Gli fu anche d’aiuto l’eccelsa qualità dei partner che di volta in volta aveva a fianco: Macario, Nino Taranto, Aldo Fabrizi, Anna Magnani, Peppino De Filippo…
Dalla seconda compagna, la bellissima Franca Faldini, Totò ebbe un figlio di nome Massenzio, che morì appena nato. Fu forse da questo dispiacere che sorse il suo grande impegno nei confronti dell’infanzia abbandonata: visitava gli orfanotrofi e portava regali a tutti i bambini, spendendo in queste imprese addirittura di più di quanto i suoi pur cospicui guadagni di attore gli potessero permettere. In questo aspetto della sua personalità, egli impersonava perfettamente il concetto (tratteggiato in così tanti perfezionamenti del grado di Maestro massonici) del santo laico: la persona che fa del bene non in vista di un’improbabile ricompensa nell’altromondo, ma perché ritiene suo dovere rendere più vivibile questo.
Il suo invincibile amore si estendeva anche agli animali: comprò un canile fatiscente e lo ristrutturò per ospitare il più gran numero possibile di cani randagi, e quasi tutti i giorni vi si recava per accertarsi che venissero trattati bene.
Quest’uomo dinnanzi al quale tutti dovremmo toglierci il cappello se ne andò improvvisamente nella notte del 14 aprile 1967. Il lutto fu generale al punto che dovettero essere celebrati ben tre funerali: il primo a Roma, il secondo a Napoli (con una partecipazione stimata di duecentocinquantamila persone) e un terzo nel Rione Sanità, da dove era venuto e che non aveva mai dimenticato.
La vocazione massonica di Totò aveva preso forma negli anni quaranta, frutto di una crisi spirituale molto intensa, della quale purtroppo sono rimaste soltanto testimonianze verbali.
La spinta più importante gli era venuta dall’impulso ad adoperarsi per il bene degli altri: così, quando era venuto a conoscenza delle grandi iniziative di beneficenza che la Massoneria svolge in segreto, non prendervi parte sarebbe stata ai suoi occhi quasi una colpa.
Questo concetto venne sottolineato, parecchi anni dopo la sua scomparsa, da Renzo Arbore, che in TV dichiarò: Credo Totò che avesse molto forte il senso della solidarietà e della filantropia, ed in questo senso era Massone.
Nelle sue dichiarazioni in proposito, Totò non fece mai riferimento alla Massoneria come strumento di potere. Al contrario, aveva saputo coglierla fin dall’inizio nella sua vera natura: un cammino spirituale indipendente, la cui principale bellezza consiste nella libertà.
Secondo chi lo conobbe, Totò non era stato un uomo particolarmente religioso, ma a modo suo credeva: credeva in un’entità superiore (…) e non ammetteva che qualcuno usasse espressioni volgari o linguaggio irriguardoso nei suoi riguardi.
Non credeva ad un’altra vita dopo la morte; anzi affermava che se dovessero esserci, come si dice, Paradiso, Purgatorio e Inferno, bene: l’inferno lo stiamo vivendo in questo mondo da quando si nasce, e dall’altro mondo nessuno è mai tornato a descriverlo.
Quando in un’intervista gli chiesero cosa fosse per lui la Massoneria, rispose: serve soltanto per il miglioramento di sé stessi. I gradi, i grembiulini, le onorificenze e altre finalità profane non hanno niente a che vedere.
Era stato iniziato il 9 aprile 1945 presso la Rispettabile Loggia Palingenesi di Napoli. Nel suo testamento (un questionario che viene compilato da tutti i profani all’atto della loro ammissione in Massoneria), alla domanda Che cosa dovete all’umanità? aveva risposto: Amare il prossimo come sé stessi, aiutarlo e fare del bene, senza limiti di sorta; ed a quella Che cosa dovete a voi stesso?: Niente, all’infuori del miglioramento spirituale.



In tempi successivi lo ritroviamo tra i fondatori della Fulgor Artis di Roma, la celebre Loggia degli artisti, della quale fu Venerabile. Fecero parte della Fulgor Artis attori del calibro di Mario Castellani, Carlo Campanini, Aldo Silvani, Carlo Rizzo e Vittorio Caprioli; e non sono questi i soli personaggi dello spettacolo che poterono gloriarsi della maestranza massonica - per fare solo pochi nomi possiamo ricordare Gorni Kramer, Gino Cervi, Carlo Dapporto, Paolo Stoppa e Aldo Fabrizi.
Totò prese parte anche al Rito Scozzese Antico e Accettato, raggiungendo il 30° grado (il 33° gli fu rilasciato postumo ad honorem) e lasciandovi il ricordo di una devozione massonica e di un’umiltà davvero fuori dal comune; in contrasto con gli onori pubblici di cui beneficiava grazie al suo lavoro nel mondo profano, dei quali mai volle approfittare (né addirittura parlarne!) in qualità di Massone.
Come in tutte le scelte della sua vita, anche nel caso della sua adesione alla Massoneria Totò non tenne in minimo conto le controindicazioni di carattere sociale, che allora come oggi condannano il Massone alla diffidenza e alle calunnie dei conformisti e degli ignoranti.
In quegli anni contrassegnati dal bigottismo pseudoreligioso, quella scelta gli fruttò l’ostilità di molti potenti, talvolta costandogli la perdita di offerte di lavoro e danni non indifferenti tanto sul piano professionale quanto economico.
Ma non erano certo queste pinzillacchere a trattenerlo dalla sua vocazione, consapevole come egli era del fatto che l’amore del pubblico gli veniva dall’apprezzamento della sua sincerità in ogni atto della vita - quella stessa indole schietta che traspare dalle sue prestazioni cinematografiche, componente non ultima dello sviscerato amore che il pubblico nutriva per lui.
Come è noto Totò fu anche autore di canzoni (tra cui la famosa Malafemmena), poeta e scrittore. Alcuni tra i suoi migliori scritti riverberano la luce massonica di cui era portatore, e tra questi il più noto è senz’altro la poesia A’ livella, che fu solennemente e pubblicamente recitata in occasione della Gran Loggia del 2016 del GOI.
La Livella, simbolo di Uguaglianza, è uno dei più fondamentali strumenti dell’arte muratoria. Quando un Apprendista viene elevato a Compagno d’Arte, si dice che passa dalla Perpendicolare alla Livella; questo significa che è maturo per applicare gli insegnamenti ricevuti al piano del sociale.

Ogn’anno, il due novembre, c’è l'usanza
per i defunti andare al Cimitero.
Ognuno l’adda fa’ chesta crianza;
ognuno adda tené chistu penziero.

Ogn’anno puntualmente, in questo giorno,
di questa triste e mesta ricorrenza,
anch'io ci vado, e con i fiori adorno
il loculo marmoreo ‘e zi’ Vicenza.

St’anno m’è capitata n’avventura...
dopo di aver compiuto il triste omaggio
(Madonna, si ce penzo, che paura!)
ma po’ facette un’anema ‘e curaggio.

O fatto è chisto, statemi a sentire:
s'avvicinava l'ora d’a chiusura,
io, tomo tomo, stavo per uscire,
buttando un occhio a qualche sepoltura:

“Qui dorme in pace il nobile Marchese

Signore di Rovigo e di Belluno,

Ardimentoso eroe di mille imprese,

Morto l’11 maggio del trentuno.

O stemma cu a curona ‘ncoppa a tutto...
Sotto,’na croce fatta ‘e lampadine;
tre mazze ‘e rose cu ‘na lista ‘e lutto,
cannele, cannelotte e sei lumine.

Proprio azzeccata ‘a tomba ‘e stu signore,
nce steva n’ata tomba piccerella,
abbandunata, senza manco un fiore;
pe’ segno, solamente ‘na crucella.

E ncoppa ‘a croce, appena si liggeva:
Esposito Gennaro, netturbino.
Guardannola, che pena me faceva
stu muorto senza manco nu lumino!

Questa è la vita, ncapo a me penzavo:
chi ha avuto tanto e chi nun ave niente!
Stu povero, maronna, s’aspettava
ca pure all’atu munno era pezzente?

Mentre fantasticavo stu penziero,
s’era già fatta quase mezanotte,
e i’ rummanette chiuso priggiuniero,
muorto ‘e paura, nnanze e cannelotte.

Tutto a nu tratto, che veco a luntano?
Doje ombre avvicenarse a parte mia.
Penzaje: stu fatto a me mme pare strano...
Stongo scetato, dormo, o è fantasia?

Ate che fantasia: era o Marchese,
c’o tubbo, a caramella e c’o pastrano;
chill’ato appriesso a isso, un brutto arnese,
tutto fetente e cu na scopa mmano.

E chillo certamente è don Gennaro,
o muorto puveriello, o scupatore.
Int’ a stu fatto i’ nun ce veco chiaro:
so’ muorte e se retireno a chest’ora?

Putevano stà a me quase nu palmo,
quando o Marchese se fermaje e botto,
s’avota e, tomo tomo, calmo calmo,
dicette a don Gennaro: “Giovanotto!

Da voi vorrei saper, vile carogna,
con quale ardire e come avete osato
di farvi seppellir, per mia vergogna,
accanto a me, che sono un blasonato!

La casta è casta e va sì rispettata,
ma voi perdeste il senso e la misura:
la vostra salma andava, sì, inumata,
ma seppellita nella spazzatura!

Ancora oltre sopportar non posso
la vostra vicinanza puzzolente:
fa d’uopo, quindi, che cerchiate un fosso
tra i vostri pari, tra la vostra gente.”

“Signor Marchese, nun è colpa mia,
i’ nun v’avesse fatto chistu tuorto;
mia moglie è stata a fa’ sta fessaria,
i’ che putevo fa’, si ero muorto?

Si fosse vivo ve farie cuntento,
pigliasse ‘a casci lella cu ‘e quatt’osse
e proprio mo, obbj’, nd’a stu mumento
me ne trasesse dinto a n’ata fossa.”

“E cosa aspetti, o turpe malcreato,
che l’ira mia raggiunga l’eccedenza?
Se io non fossi stato un titolato,
avrei già dato piglio alla violenza!”

“Famme vedé... piglia sta violenza!
A verità, Marché: mme so’ scucciato,
e te senti, e si perdo ‘a pacienza
me scordo ca so’ muorto, e so’ mazzate!

Ma chi te cride d’essere, nu dio?
Cà dinto, o vuò capì, ca simmo eguale!
Morto sì tu e muorto so’ pur io;
ognuno comme a n’ato è tale e quale.”

“Lurido porco! Come ti permetti
paragonarti a me, ch’ebbi natali
illustri, nobilissimi e perfetti,
da fare invidia a principi e reali?”

“Tu qua’ Natale, Pasca e Pifania!
T’o vuo’ mettere ncapo, int’a cervella
che staje malato ancora ‘e fantasia?
A morte, o saje ched’è? È una livella!

Nu re, nu maggistrato, nu grandommo,
trasenno stu canciello, ha fatt’o punto;
c’ha perzo tutto, a vita e pure o nomme,
tu nun t’e fatto ancora chistu cunto?

Perciò, stamme a senti: nun fa’ o restivo,
suppuorteme vicino, che te mporta?
Sti pagliacciate e fanno sulo e vive;
nuje simmo serie, appartenimmo a-a morte.”

Un altro scritto di Totò, meno noto, è La Preghiera del Clown; ed è bene concludere con questa, perché ci spalanca la prospettiva dell’intimo e quasi affettuoso rapporto coltivato dal grande attore con il Grande Architetto dell’Universo.

Noi ti ringraziamo, nostro buon Protettore, per averci dato anche oggi la forza di fare il più bello spettacolo del mondo. Tu che proteggi uomini, animali e baracconi, tu che rendi i leoni docili come gli uomini e gli uomini coraggiosi come i leoni, tu che ogni sera presti agli acrobati le ali degli angeli, fa che sulla nostra mensa non vengano mai a mancare pane ed applausi.
Noi ti chiediamo protezione; ma se non ne fossimo degni, se qualche disgrazia dovesse accaderci, fa che avvenga dopo lo spettacolo e, in ogni caso, ricordati di salvare prima le bestie e i bambini.
Tu che permetti ai nani e ai giganti di essere ugualmente felici, tu che sei la vera, l’unica rete dei nostri pericolosi esercizi, fa che in nessun momento della nostra vita venga a mancarci una tenda, una pista e un riflettore.
Guardaci dalle unghie delle nostre donne, ché da quelle delle tigri ci guardiamo noi. Dacci ancora la forza di far ridere gli uomini, di sopportare serenamente le loro assordanti risate, e lascia pure che essi ci credano felici.
Più ho voglia di piangere, più gli uomini si divertono; ma non importa, io li perdono, un po’ perché essi non sanno, un po’ per amor Tuo, un po’ perché hanno pagato il biglietto.
Se le mie buffonate servono ad alleviare le loro pene, rendi pure questa mia faccia ancora più ridicola; ma aiutami a portarla in giro con disinvoltura.
C’è tanta gente che si diverte a far piangere l’umanità, noi dobbiamo soffrire per divertirla. Manda, se puoi, qualcuno su questo mondo capace di far ridere me come io faccio ridere gli altri.

di Giovanni Domma