mercoledì 28 ottobre 2009

Gli enigmi e le canzoni di Dan Brown


di Luca Crovi

È più pericoloso che la religione si sostituisca alla ragione o che la scienza diventi religione? Se dovessimo riassumere in poche parole il tema principale dell’ultimo best seller di Dan Brown “Il simbolo perduto” (Mondadori, pagg. 612, euro 24, da oggi nelle librerie italiane), basterebbe questa domanda. Una questione amletica che qualche filosofo zen avrebbe risolto in un aforisma e che invece lo scrittore americano dilata a dismisura, creando trame e sottotrame che depistano il lettore dall’obiettivo primario del narratore. D’altra parte Brown fin da piccolo aveva una predilezione speciale per rebus cifrati e codici matematici. Mentre gli altri bambini non vedevano l’ora di trovare sotto l’albero i regali da scartare, lui sperava che il padre gli donasse una complicata mappa del tesoro, un foglio su cui, dietro arcane formule, ci fossero le indicazioni per trovare gli altri regali. Ogni anno il piccolo Dan chiedeva ai suoi che il gioco fosse più complicato, in modo che non solo durasse di più, ma gli permettesse anche di mettere a frutto le sue doti di risolutore di enigmi. Per questo in ogni suo libro, da “Cripto” a “La verità del ghiaccio”, da “Angeli e demoni” a “Il Codice da Vinci”, Brown ha cercato di celare piccoli e grandi segreti che i lettori potessero seguire passo passo come in una caccia al tesoro letteraria. Il Grande Gioco legato a “Il simbolo perduto” è partito fin da quando era circolata la voce che il thriller avrebbe dovuto intitolarsi “La Chiave di Salomone” e tutti si erano messi a ipotizzare quali elementi legati al Talmud e alla Kabbala ebraica potessero essere legati al romanzo. Poi la casa editrice Doubleday ha iniziato a pubblicare in Internet su Twitter due sequenze numeriche che rimandavano all’indirizzo GPS della Grande Piramide egizia di Giza. Gli indizi in sequenza si sono fatti più precisi con riferimenti riconducibili ai Comandamenti, alla stella di Davide, allo Zodiaco, al pittore Albrecht Dürer, al filosofo Francis Bacon, a papa Bonifacio VIII e persino al finanziere Roberto Calvi. Poco alla volta i lettori hanno così scoperto che il tema de Il simbolo segreto sarebbe stato la Massoneria. Infatti Brown delinea quale sia stato il legame tra i Padri Fondatori degli Usa e la Massoneria. Ci viene raccontato che George Washington era Gran Maestro della Loggia della Virginia e che aveva fatto costruire la capitale che porta il suo nome proprio seguendo le istruzioni massoniche, tanto che unendo idealmente cinque delle principali arterie stradali del National Hall su una mappa ne risulta geometricamente il simbolo di una stella di David. Sempre in base a queste planimetrie spiccherebbero anche un diamante e l’inquietante cifra 666 (legata al Diavolo e all’Anticristo). Basterebbero questi primi elementi a far scattare in qualsiasi appassionato del genere la voglia di divorare in un sol boccone il supertomo. E poco importa se alcuni serissimi studiosi come Michael Baigent e Massimo Introvigne ci ricordino che l’architetto Pierre Charles L’Enfant, il quale disegnò Washington, non era affatto massone e che il suo “Plan of The City Of Washington” del 1791-1792 è conforme alle indicazioni non di George Washington, bensì di un altro (futuro) presidente non massone come Thomas Jefferson. Né importa che persino la scena iniziale del libro sia poco o per nulla plausibile sia secondo il rito scozzese, sia secondo gli altri riti massonici diffusi nel resto del mondo. L’adepto in questione, per attuare la sua iniziazione beve vino rosso sangue da un teschio incavato pensando alla frase “il segreto è come morire”. A chi sostiene che il romanzo (come “Angeli e demoni” e “Il Codice Da Vinci”), è pieno di imprecisioni, Brown risponde che la sua è narrativa e come tale dev’essere valutata. Eppure lui stesso sottolinea all’inizio, dopo averci raccontato di un misterioso documento secretato nel 1991 dalla Cia, che “tutte le organizzazioni contenute in questo romanzo esistono, compresa la Massoneria, il Collegio Invisibile, l’SMSC e l’Istituto di Noetica. Tutti i rituali, le scienze, le opere d’arte e i monumenti sono reali”. Ma è proprio questo che fa arrabbiare gli studiosi di mezzo mondo. Sarebbe bastato che l’autore dicesse che l’ambientazione era credibile o plausibile, tenendosi lo spazio aperto alle… licenze poetiche. Tuttavia a Brown interessa il “suono” del suo libro, non la sua attendibilità. Non a caso avrebbe voluto fare la pop star, non il narratore, e negli anni ’90 cercò di realizzarsi proprio come musicista, prima producendo cassette per bambini che contenevano canzoni come “Happy Frogs” e “Suzuki Elephants”, poi cercando di sfondare a Hollywood come cantante pianista incidendo dischi autoprodotti come “Dan Brown” e “Angels and Demons” (parte da qui il punto di ispirazione del suo omonimo romanzo), ora ricercatissimi dai collezionisti di mezzo mondo. Allora viene naturale chiederci: come «suona» “Il simbolo perduto”? Parafrasando una celbre battuta televisiva di Adriano Celentano potremmo affermare che è «lento» e poco «rock». La trama. Lo studioso di simboli Robert Langdon questa volta ha solo dodici ore per salvare la propria vita e quella del suo amico e mentore Peter Solomon, del quale ha ritrovato in Campidoglio la mano mozzata proprio sotto il quadro che rappresenta George Washington come una divinità pagana. Un enigma che, se risolto, potrebbe far rileggere in maniera definitiva la storia degli Stati Uniti d’America e permetterebbe forse lo scatenamento di terribili demoni il cui segreto è criptato nella Chiave di Salomone. L’esistenza di una stanza segreta situata proprio sotto terra al centro dell’America e raggiungibile con una scala misteriosa che contiene qualcosa di davvero rivoluzionario. A costringere Langdon a indagare è il tatuatissimo e mefistofelico Mal’akh che per attuare la sua ultima e definitiva «trasformazione umana» è disposto a tutto pur di entrare in possesso dei mirabolanti poteri che i Padri Fondatori Pellegrini hanno nascosto sotto Washington. Il ruolo di educatrice e femme fatale capace di condividere con Langdon il brivido dell’avventura è svolto da Katherine Solomon, studiosa ed esperta di noetica, la quale afferma che «la noetica potrebbe dare alle pubbliche relazioni la stessa scossa che Dan Brown diede al Santo Graal». Rispetto a “Il codice Da Vinci” o ad “Angeli e demoni”, qui lo stile di Brown non si è evoluto. La quantità di scene d’azione è notevolmente ridotta, mentre le pagine nozionistiche la fanno da padrone. L’autore non dà grandi stoccate alla Massoneria (ricordiamo come invece vennero trattati il Vaticano e l’Opus Dei nei romanzi precedenti…), presentata in termini per lo più positivi. Piuttosto, ci si chiede se il libro non sia stato scritto con intenzioni più da tour operator che da maestro del thriller, visto che il pacchetto-viaggi con visita ai luoghi de Il simbolo perduto è già disponibile in Internet. Siamo però certi che molti lettori non si accorgeranno di queste pecche presenti nell’«esecuzione» di Brown e continueranno a gridargli «suonala ancora Dan».