di Roberto Santucci
Un personaggio controverso, additato come stregone, pazzo sadico, vicino come pochi all’icona diabolica, temuto e maledetto dal popolo e dalla stessa aristocrazia conservatrice, ma in realtà uomo di vasta cultura, di illuminato intelletto e una sete di conoscenza infinita, geniale applicatore nella realtà di tutte le nozioni apprese.
Il principe Raimondo Di Sangro, VII Principe di Sansevero, nacque trecento anni fa, il 30 gennaio del 1710 a Torremaggiore, Foggia, ma divenne napoletano a tutti gli effetti, da quando a 20 anni andò ad abitare nel palazzo di famiglia, nei pressi di Piazza S.Domenico Maggiore, per non abbandonare mai più questa città.
La madre morì giovanissima, quando il piccolo aveva poco meno di un anno, ma il legame inconscio con l’impossibile ricordo di lei rimase forte; altrettanto importante fu la figura del padre che, pur avendo avuto una vita dissoluta tra amori, delitti e carcere, prese alla fine i voti e rinunciò a diventare Principe di Sansevero. Il vincolo, pur apparentemente senza basi, con i suoi genitori è talmente importante da ritrovarli, poi, rappresentati in due delle opere più importanti della Cappella di famiglia.
A 10 anni Raimondo fu preso in cura dal nonno Paolo (VI principe), che lo avviò agli studi e gli passò, alla sua morte, il titolo. Da subito si notò una grande passione per il sapere: retorica, filosofia, scienze, fisica, matematica, greco, latino, tutto era fonte di attrazione per la mente del giovane principe.
Preso possesso del Palazzo di famiglia a Napoli nel 1730, continuò i suoi studi e iniziò la strada della sperimentazione che gli portò tanta fama e diffidenza, entrando a far parte della Scuola Alchemica napoletana. Nel 1744 entrò a far parte della Massoneria, della quale scalò ben presto le gerarchie diventando Gran Maestro di tutte le Logge napoletane, cosa, questa, che ha dato la stura all’interpretazione in chiave simbolica del suo testamento spirituale, la Cappella.
Una svolta importante si ebbe nel 1751; quando Papa Benedetto XIV ordinò lo scioglimento delle logge, Carlo III non potè far altro che emettere un editto che bandiva la massoneria dal regno; Di Sangro fece una mossa, consegnare al Re la lista dei componenti le logge, che se da un lato salvò tutti i confratelli –il sovrano non ebbe il coraggio di punire buona parte dell’aristocrazia napoletana e li redarguì semplicemente– dall’altro lo fece diventare inviso alle alte sfere della massoneria italiana ed europea e ciò pesò negativamente dopo la sua morte, se è vero, come sembra, che i parenti distrussero buona parte dei documenti e studi riferibili alla massoneria, proprio per paura di rivalse nei loro confronti, facendoci perdere così importanti informazioni su eventuali invenzioni che avrebbero potuto anticipare di qualche secolo molte scoperte.
Nel suo palazzo il Principe Raimondo passava buona parte del tempo a fare esperimenti di ogni genere, solo ad ideare o proprio a mettere a punto le sue invenzioni, delle quali abbiamo notizia soprattutto tramite uno scritto da lui stesso redatto: la “Lettera Apologetica dell'Esercitato accademico della Crusca contenente la difesa del libro intitolato Lettere di una Peruana per rispetto alla supposizione de' Quipu scritta dalla Duchessa di S… e dalla medesima fatta pubblicare” , in cui descrive alcuni dei suoi progetti, non è dato sapere se tutti realizzati o meno.
Tra questi spiccano Il Palco Pieghevole, usato, sembra, durante una rappresentazione teatrale presso il collegio gesuitico in cui l’allora diciannovenne Raimondo studiava; il Cannone Leggero fabbricato utilizzando una lega metallica leggera al posto del pesante bronzo; un mantello “impermeabilizzato” regalato al re Carlo III; la Carrozza marittima –di cui esiste un disegno e una cronaca di “navigazione”– somigliante ad una carrozza normale ma con cavalli di sughero e, al posto della ruote, delle pale; la stampa a più colori realizzata con “una unica passata di torchio”, impensabile all’epoca.
Ma più interessanti furono i suoi studi nell’ambito delle scienze naturali e della chimica, come gli esperimenti sulla palingenesi, segretissimi e di cui, purtroppo, nessuna documentazione certa ci è pervenuta; sulla realizzazione di gemme artificiali in tutto e per tutto uguali a quelle originali; sulla pittura oloidrica, che riusciva a mantenere inalterata la brillantezza dei colori e utilizzata per la realizzazione degli affreschi della Cappella, ancora perfettamente limpidi e vivi dopo centinaia d’anni e nessun restauro; sui marmi alchemici, marmi e stucchi sintetici o anche sistemi di marmorizzazione, di cui sono rimaste testimonianze, ancora nella Cappella, sia in parte del pavimento dove esistono tracce di un cordone marmoreo ininterrotto, sia, come pare ormai assodato, nella sublime opera del Cristo Velato (e probabilmente anche nelle altre due opere più famose, la Pudicizia e il Disinganno).
Da due sue lettere ci si può rendere conto di quanto le conoscenze del Di Sangro fossero molto più avanzate di quelle dei suoi contemporanei.
In una, illustra le cure prestate ad un paziente –pare fosse uno zio– affetto da un male allora sconosciuto ai medici, il carcinoma allo stomaco. Il Principe racconta di aver utilizzato un estratto di pervinca, descrivendo poi come il paziente reagisse alla terapia perdendo i capelli; ricordiamo che le attuali cure oncologiche prevedono somministrazioni di sostanze derivanti dalla vinca rosea, la vinblastina e la vincristina.
Nella seconda, racconta di aver scoperto che un minerale “cristallino e luminescente al buio” datogli in dono dal Re di Prussia, opportunamente ripulito, provocava la morte di alcune farfalle esposte a queste pietre, ma sperimentò che frapponendo una lastra di piombo gli insetti restavano in vita; chiamò ciò che proveniva da quel minerale il “raggio-attivo”. Solo 150 anni più tardi, i coniugi Curie avrebbero isolato il Radio e scoperto la radioattività utilizzando materiale grezzo estratto in Boemia.
E’ chiaro che tutte queste invenzioni e sperimentazioni, siano esse reali o no –del resto ne abbiamo notizia solo da suoi scritti–, sono di una modernità sconvolgente e nella Napoli del settecento potevano spaventare, non solo il popolo ma soprattutto l’aristocrazia del tempo.
Raimondo di Sangro discendeva per parte di madre da una famiglia di intellettuali, mecenati di Vico e Solimena e da parte di padre da una delle famiglie più potenti del tempo, ricca di condottieri dell’esercito spagnolo e con il nonno Paolo nominato Grande di Spagna di Prima Categoria, titolo estensibile a tutti i discendenti maschi.
Queste radici, da un lato, lo portarono ad approfondire tutta la cultura, anche quella di autori come Bayle, Shaftesbury, Collins, che esaltavano la tolleranza religiosa e la libertà di pensiero, o a dedicare la sua attenzione alle idee illuministe sul superamento dei dogmi nel campo della religione, della filosofia, della scienza, dall’altro lo ponevano, suo malgrado, tra quella élite nobiliare che faceva della vita di corte e dei privilegi feudali l’argomento principale delle proprie conversazioni.
Qui nasce la rottura, un Principe troppo vicino alla borghesia o ai liberi pensatori creava malumore e discredito presso gli aristocratici dell’epoca, da parte del Di Sangro c’era, invece, la ferma intenzione di considerare nobili l’ingegno, la virtù ed l’onestà, uniamo a ciò la grande voglia di stupire i suoi contemporanei, alimentando la sua fama di essere diabolico invece di smentirla e la messa all’indice diventa cosa facile, oltre che opportuna.
Pochissime prove concrete delle sue scoperte e delle sue invenzioni ci sono giunte: accortezza del Principe che non vi fossero tracce a smentire la sua fama di anima nera, o furono davvero i parenti a distruggere tutto dopo la sua morte? L’ennesimo mistero che Raimondo Di Sangro si è portato nella tomba.
Anche intorno alla sua morte, o meglio, ciò che successe dopo di essa vi è una leggenda in linea con la sua aura maledetta e diabolica.
Si narra che il Principe, vista vicina la sua fine, diede mandato che dopo di essa, il suo corpo fosse tagliato a pezzi e chiuso in una cassa, probabilmente insieme con una pozione da lui inventata, che si sarebbe dovuta aprire solo dopo un preciso lasso temporale, in modo che lui ne uscisse di nuovo vivo; così fu fatto, ma la sua famiglia trovò la cassa troppo presto e l’aprì credendo di trovarci chissà quali tesori, ne uscì il corpo del defunto ancora in via di “composizione”, che guardò gli astanti con occhi atterriti e si disfece in un urlo agghiacciante.
Solo una leggenda, ovviamente, mentre ben reale fu il suo testamento, in cui lasciò precise indicazioni agli eredi, di non modificare alcunché all’interno della Cappella gentilizia.
Questo ci porta a quella che è, in pratica, la sua opera più grande, il suo “progetto iconografico” cui dedicò buona parte della sua vita e tutti i suoi averi e che ha voluto preservare, nella sua interezza, ai posteri...
(continua)