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venerdì 19 gennaio 2018
giovedì 18 gennaio 2018
Kipling e il punto di rottura
Rudyard Kipling, nasce a Bombay, da genitori inglesi. Conosce molto bene l’India, l’Europa in cui viaggia come giornalista. Va anche in America. Riceve il premio Nobel a soli 41 anni ( il più giovane scrittore che abbia mai ricevuto questo riconoscimento). Quasi tutti i ragazzi, nell’adolescenza, hanno letto almeno uno dei suoi libri: Il libro della Giungla, Capitani Coraggiosi, Kim. Appartenne ad una Loggia Massonica in India Tra i vari scritti di impronta massonica ricordo i più conosciuti: “La Loggia Madre” esprime un rimpianto caro per una appartenenza che gli manca quando è lontano dal' India; “Se” racchiude le qualità umane dell’uomo equilibrato, leggesi massone;
"Il Punto di Rottura” esprime l’amarezza di sapere che l’uomo è fallibile e destinato a soccombere anche se “si rialza” più volte nell’arco della vita. L’ha scritta dopo aver perso due figli.
Inno del punto di rottura
(in guardia costruttori!)
il carico, l'impatto, la pressione
che può reggere ogni materiale.
Così, quando per trave che s'incurva
l'intera campata è frantumata,
la colpa dei danni, o della morte,
sul conto dell'uomo va segnata.
Dell'uomo - non dei materiali!
Ma nel nostro rapporto quotidiano
con pietra e acciaio,
noi vediamo gli Dei non vincolati
a una simile giustizia per gli umani.
Ci forgiano senza prendere misure,
non frequentano un corso su di noi,
alla cieca ci gravano di pesi.
Troppo spietati da sopportare.
Precisi manuali hanno tabelle:
quale stress lacera i bulloni,
quanto traffico logora l'asfalto,
quant'a lungo dura il calcestruzzo.
Ma per noi, poveri figli di Adamo,
non stamparono tali avvertimenti.
Per l'uso in piena sicurezza.
Rapiniamo tutta la Terra
e Tempo e Spazio insieme;
troppo sazi ormai di meraviglie
per stupirci a nuovi miracoli;
finché, nella dolce illusione
d'aver già sottomano il divino,
una multipla confusione assale
ogni cosa compiuta o ideata:
Le opere possenti progettate.
Noi soli nel Creato soffriamo
(più fortunati ponti e rotaie!)
la duplice condanna di fallire
e sapere il proprio fallimento.
Ma un segno, l'unico, svela
che fummo Dei: è la vergogna
di crollare, pur sotto pesi immani.
Gran carico o dure avversità.
Oh Potenza velata di mistero,
di cui invano cerchiamo il sentiero,
assistici nell'ora di pena e rovina.
E per quel segno che Ti manifesta,
noi gli spezzati, proprio perché spezzati,
sorgeremo ancora a costruir di nuovo.
In piedi, a costruire ancora...
Fonte
Pubblicato da ArcoReale
giovedì 4 gennaio 2018
venerdì 22 dicembre 2017
E’online il numero di Erasmo di dicembre 2017
E’ online il numero di Erasmo di dicembre 2017. “Il ritorno della luce”, il titolo, dedicato al Solstizio d’Inverno e all’inaugurazione dell’impianto di illuminazione dello stadio di Norcia, un’iniziativa voluta e finanziata dal Grande Oriente per promuovere la ripresa della normalità nelle zone che lo scorso anno furono colpite dal terremoto. Un gesto di solidarietà ma non l’unico della Comunione, che ha istituito anche il Premio La Scuola del Coraggio, che assegnerà il prossimo gennaio a 100 studenti delle aree colpite dal sisma che si sono particolarmente distinti ottenendo la lode alla maturità.
In primo piano il convegno che si è tenuto a Sassari in memoria di Armando Corona, che fu il Gran Maestro che sciolse la loggia P2, espulse Licio Gelli e fece pulizia. E ancora le celebrazioni del Solstizio; il seminario che si è tenuto a Udine su Fake News e Antimassoneria; la chiusura dei festeggiamenti dei Trecento anni di Massoneria a Milano con una manifestazione ospitata nella Sala Verdi del Conservatorio alla quale hanno preso parte oltre 1100 spettatori.
Spazio anche alla solidarietà con l’annuncio dell’imminente apertura a Massa Marittima e poi a Pinerolo di un Ambulatorio sociale improntato al modello di welfare inaugurato dagli Asili Notturni di Torino.
Nella sezione Massoni Illustri un articolo su Salvatore Quasimodo, libero muratore e premio Nobel. Tante, come sempre, e tutte di grande interesse le notizie dagli Orienti d’Italia su iniziative ed eventi di logge e circoscrizioni. In chiusura un servizio dedicato alla Chiave Spezzata, il nuovo film del regista Louis Nero, uscito nelle sale cinematografiche il 16 novembre, con un cast davvero stellare.
ALLEGATI
- erasmo dicembreDimensione: 6 MB
giovedì 21 dicembre 2017
La complessità umana di Armando Corona/Fondazione Sardinia Blog, Persone, Storia della Sardegna
La complessità umana di Armando Corona, protagonista della vita pubblica e democratica della Sardegna del Novecento, di Gianfranco Murtas
… Era invece, Armando Corona, un uomo davvero complesso, contraddittorio come tutti siamo – ciascuno nella sua misura – contraddittori, uomo di enormi riserve e potenzialità, di importanti realizzazioni e anche, talvolta, di insufficiente prudenza nella selezione dell’agenda e delle interlocuzioni….

Come già annunciato, si è svolto sabato scorso 16 dicembre, nell’aula magna dell’università di Sassari, un affollato convegno (almeno trecento i partecipanti) sulla figura umana e pubblica di Armando Corona, notissimo gran maestro della massoneria di Palazzo Giustiniani fra il 1982 ed il 1990, e già prima esponente di primo piano della politica regionale (nel PSd’A prima, nel PRI successivamente).
Il convegno, promosso dalla loggia sassarese Goffredo Mameli n. 1192 – una loggia costituitasi una quindicina d’anni fa (esattamente nel 2003) recuperando il titolo distintivo della prima officina liberomuratoria e di ritualità scozzese della piazza, che aveva visto la luce nel 1867 e s’era segnalata a livello nazionale per il suo acceso anticlericalismo tutto risorgimentale – ha inteso, attraverso varie testimonianze, cogliere aspetti diversi della complessa personalità di Corona.
Pietro Soddu, in particolare, ha disegnato un ritratto di Corona come uomo di pazienti mediazioni politiche, nella seconda metà degli anni ’70, in vista di dar vita a quella unità autonomistica che avrebbe dovuto rafforzare la potenza negoziale della Sardegna nei confronti degli organi centrali dello Stato, dal parlamento al governo. Importante, nel suo appassionato e lucidissimo (e applauditissimo) discorso che si è aperto al confronto fra la politica “di parola” di ieri e quella soltanto gridata di oggi, tutta impostata su slogan e l’inascolto dell’altro, il rimando, da parte dell’ex presidente della Regione, al “trinomio” Democrazia-Autonomia-Rinascita che, al di là dello schieramento di appartenenza, univa un ceto politico davvero non indegno. Cenni a un tale impegno del leader repubblicano ha offerto anche, nel suo intervento di saluto, il presidente del Consiglio regionale, Gianfranco Ganau, che ha dato conto dell’autorevolezza del suo predecessore, “arbitro” istituzionale del confronto politico isolano nel biennio 1979-1981.
Sergio Vacca, commercialista di lunga e nota carriera, consulente di Corona “imprenditore”, ha offerto qualche gustosa testimonianza, ovviamente nel rispetto del segreto professionale, circa questo aspetto più chiacchierato che conosciuto di Corona operatore economico. Ha parlato di Corona editore della emittente televisiva Sardegna Uno (con Ragazzo e Zuncheddu, negli anni ’80) e di Corona coinvolto, dopo il crollo della SIR, al tempo proprietaria della spa Cagliari calcio, nel rilevamento (poi fallito a vantaggio di Alvaro Amarugi) delle quote di capitale sociale onde salvare e rilanciare la squadra, messa allora in pericolo dalle disavventure finanziarie della petrolchimica.
Breve ma efficace anche l’intervento di Giovanni Spiga, Venerabile della loggia che a Corona è stata intitolata, ora sono soltanto due anni, a Cagliari: il rapporto fra i valori della sardità e quelli propri dell’umanesimo “senza frontiere”, tanto più nel tempo che viviamo esposto a dolorose cadute di senso e di passione civile, costituiscono il patrimonio ideale in cui – egli ha dichiarato – la giovane compagine massonica intende muoversi. (E s’è appreso che proprio ieri, nel tempio sassarese di Palazzo Tola, il Gran Maestro Bisi presente in città e al convegno ha voluto iniziare un giovanissimo professionista cagliaritano, quasi a voler anche idealmente, e sentimentalmente, gemellare Cagliari e Sassari città sorelle e mai rivali).
Ampio e porto con un eloquio “temperato” il discorso finale di Stefano Bisi che, onorando la memoria di Armando Corona, ha proposto un qualche parallelo fra le difficoltà da lui vissute nel post-Gelli e quelle dell’ora presente. Il riferimento era alla tempesta vissuta dal Grande Oriente d’Italia (e da tutto il composito mondo liberomuratorio nazionale), costretto da vicende malavitose registratesi nel sud Italia a giustificare o certificare alla commissione antimafia – quella presieduta dall’on. Bindi – la propria piena estraneità anche subendo interventi coattivi che offendono e restringono la libertà d’associazione garantita dalla Costituzione. Nuovamente qui vale il richiamo al sequestro delle liste degli aderenti all’Obbedienza massonica, che dovrebbero essere e restare riservati, salvo ovviamente ogni accesso, deliberato dalla magistratura e dalla stessa commissione parlamentare ed eseguito dalla forza pubblica, onde verificare lo stato associativo di eventuali indagati o inquisiti.
Ha tenuto il controllo organizzativo, proponendo anche una sua testimonianza personale su Armando Corona, Gian Carlo Lucchi, Venerabile della loggia Goffredo Mameli. Assai gradito il saluto portato, in apertura, dal magnifico rettore dell’ateneo, Massimo Carpinelli, che ha assistito allo svolgimento dell’intera seduta. (Invero non avevano granché motivo di essere certe riserve della vigilia circa la location dell’evento: altre volte l’aula magna dell’ateneo sassarese ha ospitato dibattiti sulla Massoneria nazionale, i suoi valori e i suoi protagonisti).
I giornali hanno riferito, a poche ore dall’incontro, nelle edizioni di domenica 17, brevi cronache. Piuttosto sballati diversi passaggi dell’articolo uscito sulla Nuova Sardegna (dimostrazione ennesima del pressapochismo di cronisti mandati a trattare materie sconosciute); flash piuttosto banali quelli dell’Unione Sarda, con richiami a battute affrettate del Gran Maestro Bisi condite per puro riempitivo di una pagina pubblicitaria, fra un apparecchio acustico, una pelliccia permutabile e il programma del prossimo cenone).
Davvero vien da pensare con malinconia infinita al giornalismo d’una volta, ma non di cento anni fa, di dieci o venti soltanto: dei Vittorino Fiori e dei Vindice Ribichesu, degli Alberto Rodriguez e dei Gianni Massa, dei Fabio Maria Crivelli, dei Gianni Filippini, e più in là, degli Aldo Cesaraccio e degli Arnaldo Satta Branca, degli Angelo De Murtas…
Qui appresso riproduco il testo della mia relazione biografica.
Pietro Soddu, in particolare, ha disegnato un ritratto di Corona come uomo di pazienti mediazioni politiche, nella seconda metà degli anni ’70, in vista di dar vita a quella unità autonomistica che avrebbe dovuto rafforzare la potenza negoziale della Sardegna nei confronti degli organi centrali dello Stato, dal parlamento al governo. Importante, nel suo appassionato e lucidissimo (e applauditissimo) discorso che si è aperto al confronto fra la politica “di parola” di ieri e quella soltanto gridata di oggi, tutta impostata su slogan e l’inascolto dell’altro, il rimando, da parte dell’ex presidente della Regione, al “trinomio” Democrazia-Autonomia-Rinascita che, al di là dello schieramento di appartenenza, univa un ceto politico davvero non indegno. Cenni a un tale impegno del leader repubblicano ha offerto anche, nel suo intervento di saluto, il presidente del Consiglio regionale, Gianfranco Ganau, che ha dato conto dell’autorevolezza del suo predecessore, “arbitro” istituzionale del confronto politico isolano nel biennio 1979-1981.
Sergio Vacca, commercialista di lunga e nota carriera, consulente di Corona “imprenditore”, ha offerto qualche gustosa testimonianza, ovviamente nel rispetto del segreto professionale, circa questo aspetto più chiacchierato che conosciuto di Corona operatore economico. Ha parlato di Corona editore della emittente televisiva Sardegna Uno (con Ragazzo e Zuncheddu, negli anni ’80) e di Corona coinvolto, dopo il crollo della SIR, al tempo proprietaria della spa Cagliari calcio, nel rilevamento (poi fallito a vantaggio di Alvaro Amarugi) delle quote di capitale sociale onde salvare e rilanciare la squadra, messa allora in pericolo dalle disavventure finanziarie della petrolchimica.
Breve ma efficace anche l’intervento di Giovanni Spiga, Venerabile della loggia che a Corona è stata intitolata, ora sono soltanto due anni, a Cagliari: il rapporto fra i valori della sardità e quelli propri dell’umanesimo “senza frontiere”, tanto più nel tempo che viviamo esposto a dolorose cadute di senso e di passione civile, costituiscono il patrimonio ideale in cui – egli ha dichiarato – la giovane compagine massonica intende muoversi. (E s’è appreso che proprio ieri, nel tempio sassarese di Palazzo Tola, il Gran Maestro Bisi presente in città e al convegno ha voluto iniziare un giovanissimo professionista cagliaritano, quasi a voler anche idealmente, e sentimentalmente, gemellare Cagliari e Sassari città sorelle e mai rivali).
Ampio e porto con un eloquio “temperato” il discorso finale di Stefano Bisi che, onorando la memoria di Armando Corona, ha proposto un qualche parallelo fra le difficoltà da lui vissute nel post-Gelli e quelle dell’ora presente. Il riferimento era alla tempesta vissuta dal Grande Oriente d’Italia (e da tutto il composito mondo liberomuratorio nazionale), costretto da vicende malavitose registratesi nel sud Italia a giustificare o certificare alla commissione antimafia – quella presieduta dall’on. Bindi – la propria piena estraneità anche subendo interventi coattivi che offendono e restringono la libertà d’associazione garantita dalla Costituzione. Nuovamente qui vale il richiamo al sequestro delle liste degli aderenti all’Obbedienza massonica, che dovrebbero essere e restare riservati, salvo ovviamente ogni accesso, deliberato dalla magistratura e dalla stessa commissione parlamentare ed eseguito dalla forza pubblica, onde verificare lo stato associativo di eventuali indagati o inquisiti.
Ha tenuto il controllo organizzativo, proponendo anche una sua testimonianza personale su Armando Corona, Gian Carlo Lucchi, Venerabile della loggia Goffredo Mameli. Assai gradito il saluto portato, in apertura, dal magnifico rettore dell’ateneo, Massimo Carpinelli, che ha assistito allo svolgimento dell’intera seduta. (Invero non avevano granché motivo di essere certe riserve della vigilia circa la location dell’evento: altre volte l’aula magna dell’ateneo sassarese ha ospitato dibattiti sulla Massoneria nazionale, i suoi valori e i suoi protagonisti).
I giornali hanno riferito, a poche ore dall’incontro, nelle edizioni di domenica 17, brevi cronache. Piuttosto sballati diversi passaggi dell’articolo uscito sulla Nuova Sardegna (dimostrazione ennesima del pressapochismo di cronisti mandati a trattare materie sconosciute); flash piuttosto banali quelli dell’Unione Sarda, con richiami a battute affrettate del Gran Maestro Bisi condite per puro riempitivo di una pagina pubblicitaria, fra un apparecchio acustico, una pelliccia permutabile e il programma del prossimo cenone).
Davvero vien da pensare con malinconia infinita al giornalismo d’una volta, ma non di cento anni fa, di dieci o venti soltanto: dei Vittorino Fiori e dei Vindice Ribichesu, degli Alberto Rodriguez e dei Gianni Massa, dei Fabio Maria Crivelli, dei Gianni Filippini, e più in là, degli Aldo Cesaraccio e degli Arnaldo Satta Branca, degli Angelo De Murtas…
Qui appresso riproduco il testo della mia relazione biografica.
Per creare stagioni nuove, non senza sbagli, ma con convinzione e tenacia
Medico per vocazione precoce, esponente della politica e delle istituzioni autonomistiche, artiere della fratellanza liberomuratoria: ecco Armando Corona che ha vissuto il tempo del nostro stesso mondo dal 1921 al 2009, nascendo e morendo lo stesso giorno del calendario, il 3 aprile.
La prima gran loggia che egli presiedette, nella primavera del 1983, fu a Montecatini, per onorare la memoria grande di Giovanni Amendola, massone e democratico assassinato dai fascisti violenti nel 1926. Giovanissimo ma già introdotto anch’io in attività professionali, politiche, associative e di ricerca e scrittura, fui ospite di quell’assemblea tanto emotivamente impegnativa, portato e accompagnato dalla delegazione sarda. Il messaggio del nuovo gran maestro sembrava chiaro: la Massoneria giustinianea – società ecumenica da quasi, allora, trecento anni – radicava il suo impianto ideale nel campo largo della democrazia e, data l’esperienza storica nostra, dell’antifascismo.
Essa, in quanto Comunione umanistica, veniva dalle persecuzioni che erano state clericali prima – e fu Giorgio Asproni con la sua campagna nazionale post-esecuzione di Monti e Tognetti ad impedire a Pio IX altre ennesime decapitazioni alla ghigliottina – e furono fasciste dopo. Allora, proprio in quei primi anni della gran maestranza Corona, si organizzarono convegni di studio e furono pubblicati, da storici come Mola o Santi Fedele (prorettore a Messina e massonologo fra i maggiori contemporanei anche lui) ed altri ancora, in volume, in diversi volumi, i documenti dell’esilio ventennale dei gran maestri in terra di Francia, un esilio condiviso con il nostro Lussu e quant’altri democratici italiani dovettero espatriare. Erano stati in successione i gran maestri o sovrani scozzesi Giuseppe Leti, Giuseppe Meoni, Eugenio Chiesa, Arturo Labriola, Alessandro Tedeschi, il quale la sua carriera universitaria l’aveva cominciata a Cagliari, alla fine dell’Ottocento, prima di trasferirsi in Argentina e lì lavorare a lungo all’organizzazione della rete sanitaria pubblica, fino appunto a raccogliere il Supremo Maglietto giustinianeo ed anche organizzare, nel giugno 1937, a Parigi, il congresso della Massonerie perseguitate.
Da anni in molte nazioni del continente, tanto ad est quanto ad ovest, poi anche in Spagna in cui si arrivò dai falangisti del generalissimo Franco ai grandi numeri della decimazione, le biblioteche delle logge erano state già assalite e bruciate, e alle prime vittime si erano aggiunte le centinaia di vittime. In un campo di concentramento tedesco erano stati segregati il gran maestro di Germania Bordes e il Venerabile della più antica loggia di Amburgo.
Quel congresso delle Massonerie perseguitate si concluse col mesto pellegrinaggio delle rappresentanze internazionali al monumento garibaldino di Place Cambronne ed ai sepolcri parigini di Filippo Turati, Claudio Treves, Piero Gobetti e anche dei fratelli Rosselli – di terra appena smossa, quest’ultimo.
In Italia, dove fra i saccheggi ripetuti dei Templi si contavano pure gli aggrediti, e a Firenze anche i morti, il primo punito era stato il gran maestro in carica nel 1925, Domizio Torrigiani, assegnato al confino di Lipari proprio in contemporanea ad Emilio Lussu; prima di essere liberato, ormai cieco, e soltanto per morire, egli aveva trascorso un anno anche a Ponza, dove aveva fondato una loggia clandestina, la Carlo Pisacane, affidata a Placido Martini, il Venerabile destinato alle Fosse Ardeatine nel 1944.
Cagliari aveva pagato anch’essa il suo prezzo alla prepotenza fascista, il suo Tempio massonico era stato perquisito e sequestrati i suoi beni. Operò da allora in città, fino al 1929, per quattro anni cioè, una massoneria resistente, clandestina, ed Alberto Silicani – che avrebbe copresieduto un giorno l’iniziazione di Armando Corona – ne era stato testimone e protagonista, dopo il licenziamento dalla redazione dell’Unione Sarda e la precarietà professionale cui era stato da allora costretto. Sovente perquisito nella sua abitazione, conservava gli appunti più preziosi nascosti nei bordi della copertina della sua bibbia evangelico-battista.
Medico per vocazione precoce, esponente della politica e delle istituzioni autonomistiche, artiere della fratellanza liberomuratoria: ecco Armando Corona che ha vissuto il tempo del nostro stesso mondo dal 1921 al 2009, nascendo e morendo lo stesso giorno del calendario, il 3 aprile.
La prima gran loggia che egli presiedette, nella primavera del 1983, fu a Montecatini, per onorare la memoria grande di Giovanni Amendola, massone e democratico assassinato dai fascisti violenti nel 1926. Giovanissimo ma già introdotto anch’io in attività professionali, politiche, associative e di ricerca e scrittura, fui ospite di quell’assemblea tanto emotivamente impegnativa, portato e accompagnato dalla delegazione sarda. Il messaggio del nuovo gran maestro sembrava chiaro: la Massoneria giustinianea – società ecumenica da quasi, allora, trecento anni – radicava il suo impianto ideale nel campo largo della democrazia e, data l’esperienza storica nostra, dell’antifascismo.
Essa, in quanto Comunione umanistica, veniva dalle persecuzioni che erano state clericali prima – e fu Giorgio Asproni con la sua campagna nazionale post-esecuzione di Monti e Tognetti ad impedire a Pio IX altre ennesime decapitazioni alla ghigliottina – e furono fasciste dopo. Allora, proprio in quei primi anni della gran maestranza Corona, si organizzarono convegni di studio e furono pubblicati, da storici come Mola o Santi Fedele (prorettore a Messina e massonologo fra i maggiori contemporanei anche lui) ed altri ancora, in volume, in diversi volumi, i documenti dell’esilio ventennale dei gran maestri in terra di Francia, un esilio condiviso con il nostro Lussu e quant’altri democratici italiani dovettero espatriare. Erano stati in successione i gran maestri o sovrani scozzesi Giuseppe Leti, Giuseppe Meoni, Eugenio Chiesa, Arturo Labriola, Alessandro Tedeschi, il quale la sua carriera universitaria l’aveva cominciata a Cagliari, alla fine dell’Ottocento, prima di trasferirsi in Argentina e lì lavorare a lungo all’organizzazione della rete sanitaria pubblica, fino appunto a raccogliere il Supremo Maglietto giustinianeo ed anche organizzare, nel giugno 1937, a Parigi, il congresso della Massonerie perseguitate.
Da anni in molte nazioni del continente, tanto ad est quanto ad ovest, poi anche in Spagna in cui si arrivò dai falangisti del generalissimo Franco ai grandi numeri della decimazione, le biblioteche delle logge erano state già assalite e bruciate, e alle prime vittime si erano aggiunte le centinaia di vittime. In un campo di concentramento tedesco erano stati segregati il gran maestro di Germania Bordes e il Venerabile della più antica loggia di Amburgo.
Quel congresso delle Massonerie perseguitate si concluse col mesto pellegrinaggio delle rappresentanze internazionali al monumento garibaldino di Place Cambronne ed ai sepolcri parigini di Filippo Turati, Claudio Treves, Piero Gobetti e anche dei fratelli Rosselli – di terra appena smossa, quest’ultimo.
In Italia, dove fra i saccheggi ripetuti dei Templi si contavano pure gli aggrediti, e a Firenze anche i morti, il primo punito era stato il gran maestro in carica nel 1925, Domizio Torrigiani, assegnato al confino di Lipari proprio in contemporanea ad Emilio Lussu; prima di essere liberato, ormai cieco, e soltanto per morire, egli aveva trascorso un anno anche a Ponza, dove aveva fondato una loggia clandestina, la Carlo Pisacane, affidata a Placido Martini, il Venerabile destinato alle Fosse Ardeatine nel 1944.
Cagliari aveva pagato anch’essa il suo prezzo alla prepotenza fascista, il suo Tempio massonico era stato perquisito e sequestrati i suoi beni. Operò da allora in città, fino al 1929, per quattro anni cioè, una massoneria resistente, clandestina, ed Alberto Silicani – che avrebbe copresieduto un giorno l’iniziazione di Armando Corona – ne era stato testimone e protagonista, dopo il licenziamento dalla redazione dell’Unione Sarda e la precarietà professionale cui era stato da allora costretto. Sovente perquisito nella sua abitazione, conservava gli appunti più preziosi nascosti nei bordi della copertina della sua bibbia evangelico-battista.
Armando Corona non è stato soltanto gran maestro, è stato molte altre cose. Ma forse in quel ruolo apicale dell’Obbedienza liberomuratoria avvertiva uno speciale dovere morale, quello di onorare con tutte le sue forze tanta tradizione.
Ebbe le sue cadute, forse neppure di tutte ebbe chiara percezione forse anche per difetto di chi lo assisteva e doveva assicurargli sempre una collaborazione, per statuto, tanto leale quanto critica. Perché nel mix di critica e comunione splende l’amicizia vera fra le persone di qualità. Ma con le cadute c’erano anche, ed assai più rilevanti, gli avanzamenti: e gliene hanno dato atto, al momento fatale, i pur numerosi suoi avversari ideali o d’occasione che ne avevano conosciuto non soltanto la scorza o la pelle ma l’intimo veritiero.
Egli ha vissuto da protagonista una stagione importante della vita pubblica italiana e sarda, e oltre la militanza massonica, e anzi prima ancora d’essa, sono state la professione medica e la politica di partito ed istituzionale le aree di lavoro che ne hanno caratterizzato l’impegno, la fatica realizzativa. Esse oggi sono a noi presenti al fine, se ci riusciamo, di attraversare la sua complessa biografia.
Ebbe le sue cadute, forse neppure di tutte ebbe chiara percezione forse anche per difetto di chi lo assisteva e doveva assicurargli sempre una collaborazione, per statuto, tanto leale quanto critica. Perché nel mix di critica e comunione splende l’amicizia vera fra le persone di qualità. Ma con le cadute c’erano anche, ed assai più rilevanti, gli avanzamenti: e gliene hanno dato atto, al momento fatale, i pur numerosi suoi avversari ideali o d’occasione che ne avevano conosciuto non soltanto la scorza o la pelle ma l’intimo veritiero.
Egli ha vissuto da protagonista una stagione importante della vita pubblica italiana e sarda, e oltre la militanza massonica, e anzi prima ancora d’essa, sono state la professione medica e la politica di partito ed istituzionale le aree di lavoro che ne hanno caratterizzato l’impegno, la fatica realizzativa. Esse oggi sono a noi presenti al fine, se ci riusciamo, di attraversare la sua complessa biografia.
Chissà quali scene, e con quale intensità, negli ultimi suoi istanti di coscienza – dopo anche tanta malattia e tanta sofferenza – si saranno presentate a lui come di vita vissuta e insieme di consuntivo morale: le radici familiari fra Ogliastra e Sarrabus (nipote di vescovo, figlio di anarchico), l’abito di fratino nel convento francescano di Bonorva, l’azione cattolica dai padri predicatori, i domenicani cagliaritani di Villanova cioè, la delega al gruppo sportivo e alla docenza giovanile dell’arte della bicicletta, gli studi liceali – dettorino – e universitari nel capoluogo negli anni che preparavano alla guerra e poi in essa affogavano drammaticamente, la laurea nel 1946 dopo tanto studio notturno e forsennato con l’amico di sempre Tonino Usala – a cena uova e basta, nella casa di via 20 Settembre, a ripetere il capitolo l’uno all’altro tutto in sardo –, la prima esercitazione professionale a Villaputzu e la conquista nel ’47 della condotta di Senis, e di Ales nel ‘55, l’umanità rurale (quella dei coltivatori diretti privi ancora di una cassa mutua) fra la quale esercitò la professione e modellò una personalità già entrata nell’età adulta con il matrimonio e la paternità replicata e sempre nuova, com’è in ogni autentica famiglia in boccio e aperta al domani: nella Sardegna povera in anni che sarebbero stati chiamati della ricostruzione. Una lenta, progressiva agiatezza conquistata e che sarebbe stata raccontata più volte nelle sue singolari modalità formative, con abilità e anche fortuna.
La militanza politica sardista in Marmilla, non soltanto in paese ma nel circondario, e poi a Cagliari, quelle prime candidature che servivano a misurare anche il grado empatico che sapeva o non sapeva sviluppare con i suoi pazienti di condotta e con le cerchie crescenti entrate nelle consuetudini amicali, la prima elezione al Consiglio provinciale – da direttore provinciale sardista – alla fine del ’64 e la guida sessennale dell’assessorato alla assistenza psichiatrica, la rottura traumatica ma non improvvisa nel Partito Sardo d’Azione per la questione del nazionalitarismo pur soltanto affacciato nel deliberato congressuale del 1968, la prima elezione al Consiglio regionale – finalmente legislatore dell’autonomia dal giugno 1969.
Flash di vita vissuta: sarà riapparsa magari, negli ultimi suoi attimi di coscienza, la scena dell’iniziazione massonica – officiante il Venerabile Tiberio Pintor, figlio di massone socialista e, come il padre, anche lui uomo di scuola – il 23 ottobre 1969, nella loggia sulcitana Giovanni Mori. Oppure saranno riapparse le scene di quanto – nel lungo film pubblico – sarebbe venuto dopo, tutto esposto alla ribalta, ancor più esposto al consenso e al dissenso, al giudizio di tutti, della pubblica opinione, della stampa, dei poteri civili importanti della società regionale.
L’ingresso nel Partito Repubblicano Italiano – quello dell’edera mazziniana, l’edera della Giovine Europa a voler richiamare, nella sua tripartizione, l’associazione risorgimentale nel continente fra la Giovine Italia, la Giovine Germania e la Giovine Polonia – e, presto, la segreteria regionale del partito il quale ancora viveva e gustava quanto il predecessore Bruno Josto Anedda – il compianto giornalista RAI e collaboratore della facoltà di Scienze politiche – aveva donato ad esso e alla comunità degli studi, il monumentale Diario politico e parlamentare di Giorgio Asproni cioè. Quella sede di partito era sembrata per qualche tempo una succursale universitaria, con il rettore Boscolo e i professori Del Piano, o Tito Orrù, o Neppi Modona, o Capurso ecc. a far lezione lì di storia sarda e di istituzioni politiche…
Con la responsabilità professionale della direzione sanitaria e della gestione amministrativa della casa di cura Villa Verde, lungo quasi un decennio e fonte certamente di nuove relazioni con sviluppi – perché negarlo? – anche elettorali, marciava l’esperienza politica e di pari passo quella massonica. Certo furono impegni, quelli, che non potrebbero non aver lasciato anch’essi un’impronta decisiva nella memoria dell’uomo al suo consuntivo di vita.
Fu intanto Dignitario e Venerabile – successore di una personalità eccellente come era stata quella di Mario Giglio – della loggia cagliaritana, la Hiram, in cui da Carbonia si era trasferito. Con quell’incarico la presidenza regionale dei Venerabili, e da quella presidenza il balzo nazionale nella commissione elettorale del 1978 per l’elezione post-Salvini, e poi l’ufficio di primo presidente della Corte Centrale, la Cassazione del Grande Oriente d’Italia.
A Cagliari, l’esperienza di assessore regionale agli Affari generali e riforma della Regione, dopo quella bruciata dalla mancata fiducia dell’assemblea (a scrutinio segreto), nell’autunno 1972, alla giunta Spano (doveva essere sua la competenza agli Enti locali): qui funzionava invece la giunta Soddu e il quadro era quello della unità autonomistica, con i comunisti “sdoganati” in primo luogo proprio da lui, non con le contrattazioni sottobanco come era avvenuto in una stagione precedente, assembleare e non commendevole, della politica regionale.
Altre istantanee: nel 1979, al terzo mandato consiliare, la presidenza dell’Assemblea protratta per quasi due anni ed infine spontaneamente lasciata. Il “caso” della SIR e, collegato ad esso, quello della Nuova Sardegna che giustamente si volle salvare dal fallimento della società proprietaria. La successiva commissione d’indagine consiliare – presidenza Cogodi – con una ipotesi di reato politico: abuso di potere, per una lettera inviata all’editore Caracciolo circa la proroga di otto mesi della custodia in portafoglio del 48 per cento del pacchetto azionario, data la mancata costituzione della cordata di imprenditori sardi interessati a rilevarlo; le ragioni e le giustificazioni, le contestazioni, direi anche le umiliazioni, e in contemporanea l’elezione alla carica granmagistrale del Grande Oriente Italia ancora sedente a Palazzo Giustiniani, nel marzo 1982. I passi falsi allora, le imprudenze, i contatti sia pure soltanto superficiali con il banchiere Calvi, quegli altri con Carboni e altri ancora non compresi e non giustificati da chi pure incoraggiava, fiducioso e amico, il nuovo corso. Il rischio di bruciare in fretta un patrimonio di credibilità conquistato nel tempo.
Con quelle glorie e quelle cadute quanto meno d’immagine, sulla scena nazionale – già esaurito il mandato anche nella cosegreteria repubblicana, in costanza di presidenza Spadolini a Palazzo Chigi, e seguito alla propria prolungata presidenza del Collegio nazionale dei probiviri del PRI, a contatto diretto quindi con realtà regionali molto differenziate dalla Sicilia al Piemonte – ecco forzature e appannamenti anche nella politica regionale, per responsabilità reali o soltanto supposte: a parte
l’imputazione, tutta da verificare nella sua sostenibilità ma martellante, sull’affare Nuova Sardegna/Caracciolo – e senza però che nessuno proponesse alternative di contenuto risolutivo né scorgesse una sostanza vera nell’ipotizzato abuso di potere –, ecco l’astensione prolungata dai lavori del Consiglio e la sollecitazione insistita della dirigenza repubblicana per una scelta, libera ma chiara e ferma, fra la ripresa del lavoro in assemblea e commissione o la rinuncia al mandato. I frizzi quotidiani sulla stampa, nelle collezioni dei giornali cento e più gli articoli su una disamistade penosa, credo penosa per tutte le parti, trascinata per due anni interi. Non mancarono, nella tenzone, gli strumenti i più sbagliati, comprese le gazzettiere da taluno ritenute perfino al soldo, anche qui a Sassari, che entrarono in partita e tanto enfatizzando con sgrammaticature dialettiche da finire per abbattere ogni residuo spirito di conciliazione comunque nel segno della politica, che – va sempre ricordato – è servizio all’interesse generale.
E di più: una minoranza di storia nobile, che non poteva vivere che di credibilità propria, esposta al rischio di perdersi per uno sguardo tutto concentrato sul presente senza più capacità di prospettiva e sempre nell’interesse generale. L’accusa finale di un intervento dispettoso per la modifica della legge elettorale – votata nottetempo – e demolitiva di quella promossa proprio da lui stesso nel 1979, per il recupero dei resti nel collegio regionale, santo salvavita delle minoranze. Pagine ancora da esplorare.
Poi, dall’84, il respiro finalmente, con la fine dell’attività politica militante per esaurimento della legislatura, e l’attenzione pressoché esclusiva – con un “pressoché” invero abbondante, ché non mancheranno ancora gli interessamenti – alle cose del Grande Oriente: per la riforma costituzionale, le aperture convegnistiche nella logica sempre più della trasparenza, l’amalgama fra le circoscrizioni. Nel 1985 la conferma nel mandato granmagistrale – sola conferma possibile ma quinquennale – e i contatti crescenti con le Obbedienze estere, animando il mobile raggio comunitario, le relazioni con Grandi Logge o i Grandi Orienti d’Europa cioè, in vista di costituire una specie rete d’equilibrio continentale con la potenza di tradizione inglese. Il trasferimento da Palazzo Giustiniani a Villa il Vascello, con tanta storia risorgimentale alle spalle, sul Gianicolo. Il fortunato rinvenimento – grazia per gli studiosi – dei libri matricola portanti ben 70mila nomi di iniziati almeno dagli anni ’70 dell’Ottocento – quelli intorno all’evento di Porta Pia – fino alla vigilia della dittatura.
Nel 1990 il passaggio di Maglietto a Giuliano Di Bernardo, l’appoggio al nuovo Magister Marximus nella convinzione – smentita dai fatti – di uno spazio operativo a lui ancora riservato, tanto più nella coltivazione delle relazioni estere.
L’ingarbuglio di certe situazioni non monitorate e non sanzionate, alla bisogna, in talune regioni meridionali, l’inchiesta Cordova con le sue generalizzazioni, la denuncia e la fuga di Di Bernardo con lo spregiudicato intervento sul vertice massonico inglese per il trasferimento del riconoscimento protocollare dal GOI alla Gran Loggia Regolare d’Italia (peraltro anch’essa destinata ad essere presto abbandonata dal leader costruttore): ecco nuove scene cariche di altra e alta emotività, e per lui, per il gran maestro emerito, anche personalmente gravose non foss’altro che per i falsi prodotti, con la sua firma adulterata, e consegnati – onde indirizzarne le decisioni – alla Gran Loggia di Londra, su materie critiche di stretta pertinenza iniziatica, afferente cioè la natura prima dell’ordine massonico: mi riferisco in particolare alla iniziazione femminile e dunque alle logge miste, soluzione sempre esclusa dal circuito regolare internazionale.
Il caos obbedienziale fino alla elezione del nuovo gran maestro Virgilio Gaito, e in Sardegna il replay, ma aggravato, della situazione del 1986 – quella provocata dal sindaco di Cagliari De Magistris e dalle sue allusioni a improprie e inaccettabili, ma indimostrate, manovre ostili al buon governo della Municipalità: la pubblicazione delle liste degli appartenenti alle logge sarde, e liste diversamente aggiornate per l’ostensione impudica da parte della Nuova Sardegna e da parte dell’Unione Sarda, perché diversa era la provenienza, quella sì drammaticamente fuori sistema: dalla procura di Palmi del giudice Cordova e dalla commissione Antimafia presieduta dall’on. Violante.
I giornali che per giorni e giorni fino a fare il mese pieno gonfiano le vendite con pezzi tutti o quasi di fattura modestissima per incompetenza totale – fra i pochi nell’eccezione qualitativa direi, a firma del compianto Giorgio Melis, il paginone centrale della Nuova dal titolo leggero e gustoso di “Il gran re dei massoni e i mille della loggia nuragica” (5 novembre 1993).
Fra i crolli partitici della prima Repubblica e le fatiche edificatorie della seconda, un tentativo – giusto nel 1992 – di una candidatura, per lui, per il gran maestro emerito, impossibile perché assolutamente trasformistica, al Senato, unificando per una volta sardisti e repubblicani invece lontani e lontanissimi, per la scelta nazionalitaria e indipendentista dei Quattro Mori, ormai da un quarto di secolo; non potendo qui valere la storica prossimità del Partito Sardo d’Azione alla Massoneria, così fin dagli anni ’20.
Due anni dopo, nella terribile vacanza di autorevolezza politica dei partiti costituzionali, ecco affacciare quella sorta di vicinanza preferenziale alla formazione la più lontana, per idealità e anche per rigore di costume interno, dal PRI lamalfiano e spadoliniano, intendo Forza Italia, e a una coalizione che offre ministri teorizzatori del panregionalismo, della Padania altra dall’Italia, del tricolore relegato nella umiliazione più volgare, ed altri epigoni ideali di stagioni per fortuna irripetibili.
Storia di pochi anni, poi delusioni e distanziamenti. E in quel contesto, ma per marcare le ipocrisie ravvisate, a torto o a ragione, negli schieramenti del j’accuse sempre pronto nei suoi confronti e nei confronti della Libera Muratoria isolana – PDS e Patto Segni innanzi a tutti –, ecco le lenzuolate offerte all’Unione Sarda per dire e documentare quanto fossero interne alla lottizzazione pubblica quelle forze che rivendicavano a sé verginità riformatrici.
Nel 1998 l’accostamento a Francesco Cossiga e al suo UDR con una microformazione detta di Unità Repubblicana.
Ma intanto il dolore grande – così nel 1995 – di una quiescenza imposta dal vertice obbedienziale in ottemperanza a un accordo firmato dal nuovo gran maestro Gaito e dal prefetto Parisi, capo della polizia di Stato: sarebbe bastato un avviso di garanzia per far scattare in automatico la sospensione di un aderente al Grande Oriente d’Italia. Doloroso pedaggio pagato al bisogno di recupero di credibilità pubblica di una Obbedienza storica rivelatasi però, in alcune sue stagioni, incapace di una griglia selettiva quanto serviva nelle complessità chiaroscure soprattutto della Calabria e della Sicilia ma poi anche di altre parti d’Italia.
Quante interviste libere, quante conferenze organizzate qua e là. Ce n’era stata una, di conferenza o tavola rotonda cui egli aveva presenziato, già nelle funzioni onorifiche di emerito. Era stato il 15 marzo 1993, dove? a Sassari, in questa aula magna, presente il rettore Palmieri e il prorettore Paglietti, presenti due dei maggiori massonologi italiani, il professor Mola e don Rosario Esposito, paolino. Moderatore nientemeno che l’avv. Giuseppe Melis Bassu. Titolo della tornata di dibattito: “La libertà d’associazione: il caso della Massoneria”, il patrocinio quello del club UNESCO.
Nell’età avanzante sempre più, nelle crescenti difficoltà della salute, il sogno di Armando Corona di un recupero di relazione e di presenza nel mondo massonico. Irrealizzato quello del ripristino di un rango tutto suo nel Grande Oriente d’Italia, ecco la “rete” incongrua di un’altra Obbedienza e la triste consegna di un uomo di gran valore, ormai più che ottuagenario ed infermo, a chi, per conquistarselo tutto, lo fa Sovrano d’un rito che egli – in quanto gran maestro del GOI – s’era sempre fatto vanto di non aver avvicinato né nella sua genealogia massonica né nelle sue ambizioni d’ogni specie: non certo per supponenza (ché anzi con i Riti – una sorta di scuola di specializzazione filosofica per i Maestri della loggia, con libertà di domanda e assunzioni però discrezionali – aveva firmato vari protocolli da gran maestro) ma perché, personalmente, si sentiva pago delle suggestioni formative proprie della Massoneria azzurra, quelle della piccola simbolica piramide. E di più, in quella ultima sua tremenda stagione: affiancato a chi o da chi – parlando anche per lui – tesseva le lodi di un eterno Licio Gelli, così volgarmente misconoscendo tutta l’opera di bonifica compiuta negli anni remoti di governo dell’Ordine.
La militanza politica sardista in Marmilla, non soltanto in paese ma nel circondario, e poi a Cagliari, quelle prime candidature che servivano a misurare anche il grado empatico che sapeva o non sapeva sviluppare con i suoi pazienti di condotta e con le cerchie crescenti entrate nelle consuetudini amicali, la prima elezione al Consiglio provinciale – da direttore provinciale sardista – alla fine del ’64 e la guida sessennale dell’assessorato alla assistenza psichiatrica, la rottura traumatica ma non improvvisa nel Partito Sardo d’Azione per la questione del nazionalitarismo pur soltanto affacciato nel deliberato congressuale del 1968, la prima elezione al Consiglio regionale – finalmente legislatore dell’autonomia dal giugno 1969.
Flash di vita vissuta: sarà riapparsa magari, negli ultimi suoi attimi di coscienza, la scena dell’iniziazione massonica – officiante il Venerabile Tiberio Pintor, figlio di massone socialista e, come il padre, anche lui uomo di scuola – il 23 ottobre 1969, nella loggia sulcitana Giovanni Mori. Oppure saranno riapparse le scene di quanto – nel lungo film pubblico – sarebbe venuto dopo, tutto esposto alla ribalta, ancor più esposto al consenso e al dissenso, al giudizio di tutti, della pubblica opinione, della stampa, dei poteri civili importanti della società regionale.
L’ingresso nel Partito Repubblicano Italiano – quello dell’edera mazziniana, l’edera della Giovine Europa a voler richiamare, nella sua tripartizione, l’associazione risorgimentale nel continente fra la Giovine Italia, la Giovine Germania e la Giovine Polonia – e, presto, la segreteria regionale del partito il quale ancora viveva e gustava quanto il predecessore Bruno Josto Anedda – il compianto giornalista RAI e collaboratore della facoltà di Scienze politiche – aveva donato ad esso e alla comunità degli studi, il monumentale Diario politico e parlamentare di Giorgio Asproni cioè. Quella sede di partito era sembrata per qualche tempo una succursale universitaria, con il rettore Boscolo e i professori Del Piano, o Tito Orrù, o Neppi Modona, o Capurso ecc. a far lezione lì di storia sarda e di istituzioni politiche…
Con la responsabilità professionale della direzione sanitaria e della gestione amministrativa della casa di cura Villa Verde, lungo quasi un decennio e fonte certamente di nuove relazioni con sviluppi – perché negarlo? – anche elettorali, marciava l’esperienza politica e di pari passo quella massonica. Certo furono impegni, quelli, che non potrebbero non aver lasciato anch’essi un’impronta decisiva nella memoria dell’uomo al suo consuntivo di vita.
Fu intanto Dignitario e Venerabile – successore di una personalità eccellente come era stata quella di Mario Giglio – della loggia cagliaritana, la Hiram, in cui da Carbonia si era trasferito. Con quell’incarico la presidenza regionale dei Venerabili, e da quella presidenza il balzo nazionale nella commissione elettorale del 1978 per l’elezione post-Salvini, e poi l’ufficio di primo presidente della Corte Centrale, la Cassazione del Grande Oriente d’Italia.
A Cagliari, l’esperienza di assessore regionale agli Affari generali e riforma della Regione, dopo quella bruciata dalla mancata fiducia dell’assemblea (a scrutinio segreto), nell’autunno 1972, alla giunta Spano (doveva essere sua la competenza agli Enti locali): qui funzionava invece la giunta Soddu e il quadro era quello della unità autonomistica, con i comunisti “sdoganati” in primo luogo proprio da lui, non con le contrattazioni sottobanco come era avvenuto in una stagione precedente, assembleare e non commendevole, della politica regionale.
Altre istantanee: nel 1979, al terzo mandato consiliare, la presidenza dell’Assemblea protratta per quasi due anni ed infine spontaneamente lasciata. Il “caso” della SIR e, collegato ad esso, quello della Nuova Sardegna che giustamente si volle salvare dal fallimento della società proprietaria. La successiva commissione d’indagine consiliare – presidenza Cogodi – con una ipotesi di reato politico: abuso di potere, per una lettera inviata all’editore Caracciolo circa la proroga di otto mesi della custodia in portafoglio del 48 per cento del pacchetto azionario, data la mancata costituzione della cordata di imprenditori sardi interessati a rilevarlo; le ragioni e le giustificazioni, le contestazioni, direi anche le umiliazioni, e in contemporanea l’elezione alla carica granmagistrale del Grande Oriente Italia ancora sedente a Palazzo Giustiniani, nel marzo 1982. I passi falsi allora, le imprudenze, i contatti sia pure soltanto superficiali con il banchiere Calvi, quegli altri con Carboni e altri ancora non compresi e non giustificati da chi pure incoraggiava, fiducioso e amico, il nuovo corso. Il rischio di bruciare in fretta un patrimonio di credibilità conquistato nel tempo.
Con quelle glorie e quelle cadute quanto meno d’immagine, sulla scena nazionale – già esaurito il mandato anche nella cosegreteria repubblicana, in costanza di presidenza Spadolini a Palazzo Chigi, e seguito alla propria prolungata presidenza del Collegio nazionale dei probiviri del PRI, a contatto diretto quindi con realtà regionali molto differenziate dalla Sicilia al Piemonte – ecco forzature e appannamenti anche nella politica regionale, per responsabilità reali o soltanto supposte: a parte
l’imputazione, tutta da verificare nella sua sostenibilità ma martellante, sull’affare Nuova Sardegna/Caracciolo – e senza però che nessuno proponesse alternative di contenuto risolutivo né scorgesse una sostanza vera nell’ipotizzato abuso di potere –, ecco l’astensione prolungata dai lavori del Consiglio e la sollecitazione insistita della dirigenza repubblicana per una scelta, libera ma chiara e ferma, fra la ripresa del lavoro in assemblea e commissione o la rinuncia al mandato. I frizzi quotidiani sulla stampa, nelle collezioni dei giornali cento e più gli articoli su una disamistade penosa, credo penosa per tutte le parti, trascinata per due anni interi. Non mancarono, nella tenzone, gli strumenti i più sbagliati, comprese le gazzettiere da taluno ritenute perfino al soldo, anche qui a Sassari, che entrarono in partita e tanto enfatizzando con sgrammaticature dialettiche da finire per abbattere ogni residuo spirito di conciliazione comunque nel segno della politica, che – va sempre ricordato – è servizio all’interesse generale.
E di più: una minoranza di storia nobile, che non poteva vivere che di credibilità propria, esposta al rischio di perdersi per uno sguardo tutto concentrato sul presente senza più capacità di prospettiva e sempre nell’interesse generale. L’accusa finale di un intervento dispettoso per la modifica della legge elettorale – votata nottetempo – e demolitiva di quella promossa proprio da lui stesso nel 1979, per il recupero dei resti nel collegio regionale, santo salvavita delle minoranze. Pagine ancora da esplorare.
Poi, dall’84, il respiro finalmente, con la fine dell’attività politica militante per esaurimento della legislatura, e l’attenzione pressoché esclusiva – con un “pressoché” invero abbondante, ché non mancheranno ancora gli interessamenti – alle cose del Grande Oriente: per la riforma costituzionale, le aperture convegnistiche nella logica sempre più della trasparenza, l’amalgama fra le circoscrizioni. Nel 1985 la conferma nel mandato granmagistrale – sola conferma possibile ma quinquennale – e i contatti crescenti con le Obbedienze estere, animando il mobile raggio comunitario, le relazioni con Grandi Logge o i Grandi Orienti d’Europa cioè, in vista di costituire una specie rete d’equilibrio continentale con la potenza di tradizione inglese. Il trasferimento da Palazzo Giustiniani a Villa il Vascello, con tanta storia risorgimentale alle spalle, sul Gianicolo. Il fortunato rinvenimento – grazia per gli studiosi – dei libri matricola portanti ben 70mila nomi di iniziati almeno dagli anni ’70 dell’Ottocento – quelli intorno all’evento di Porta Pia – fino alla vigilia della dittatura.
Nel 1990 il passaggio di Maglietto a Giuliano Di Bernardo, l’appoggio al nuovo Magister Marximus nella convinzione – smentita dai fatti – di uno spazio operativo a lui ancora riservato, tanto più nella coltivazione delle relazioni estere.
L’ingarbuglio di certe situazioni non monitorate e non sanzionate, alla bisogna, in talune regioni meridionali, l’inchiesta Cordova con le sue generalizzazioni, la denuncia e la fuga di Di Bernardo con lo spregiudicato intervento sul vertice massonico inglese per il trasferimento del riconoscimento protocollare dal GOI alla Gran Loggia Regolare d’Italia (peraltro anch’essa destinata ad essere presto abbandonata dal leader costruttore): ecco nuove scene cariche di altra e alta emotività, e per lui, per il gran maestro emerito, anche personalmente gravose non foss’altro che per i falsi prodotti, con la sua firma adulterata, e consegnati – onde indirizzarne le decisioni – alla Gran Loggia di Londra, su materie critiche di stretta pertinenza iniziatica, afferente cioè la natura prima dell’ordine massonico: mi riferisco in particolare alla iniziazione femminile e dunque alle logge miste, soluzione sempre esclusa dal circuito regolare internazionale.
Il caos obbedienziale fino alla elezione del nuovo gran maestro Virgilio Gaito, e in Sardegna il replay, ma aggravato, della situazione del 1986 – quella provocata dal sindaco di Cagliari De Magistris e dalle sue allusioni a improprie e inaccettabili, ma indimostrate, manovre ostili al buon governo della Municipalità: la pubblicazione delle liste degli appartenenti alle logge sarde, e liste diversamente aggiornate per l’ostensione impudica da parte della Nuova Sardegna e da parte dell’Unione Sarda, perché diversa era la provenienza, quella sì drammaticamente fuori sistema: dalla procura di Palmi del giudice Cordova e dalla commissione Antimafia presieduta dall’on. Violante.
I giornali che per giorni e giorni fino a fare il mese pieno gonfiano le vendite con pezzi tutti o quasi di fattura modestissima per incompetenza totale – fra i pochi nell’eccezione qualitativa direi, a firma del compianto Giorgio Melis, il paginone centrale della Nuova dal titolo leggero e gustoso di “Il gran re dei massoni e i mille della loggia nuragica” (5 novembre 1993).
Fra i crolli partitici della prima Repubblica e le fatiche edificatorie della seconda, un tentativo – giusto nel 1992 – di una candidatura, per lui, per il gran maestro emerito, impossibile perché assolutamente trasformistica, al Senato, unificando per una volta sardisti e repubblicani invece lontani e lontanissimi, per la scelta nazionalitaria e indipendentista dei Quattro Mori, ormai da un quarto di secolo; non potendo qui valere la storica prossimità del Partito Sardo d’Azione alla Massoneria, così fin dagli anni ’20.
Due anni dopo, nella terribile vacanza di autorevolezza politica dei partiti costituzionali, ecco affacciare quella sorta di vicinanza preferenziale alla formazione la più lontana, per idealità e anche per rigore di costume interno, dal PRI lamalfiano e spadoliniano, intendo Forza Italia, e a una coalizione che offre ministri teorizzatori del panregionalismo, della Padania altra dall’Italia, del tricolore relegato nella umiliazione più volgare, ed altri epigoni ideali di stagioni per fortuna irripetibili.
Storia di pochi anni, poi delusioni e distanziamenti. E in quel contesto, ma per marcare le ipocrisie ravvisate, a torto o a ragione, negli schieramenti del j’accuse sempre pronto nei suoi confronti e nei confronti della Libera Muratoria isolana – PDS e Patto Segni innanzi a tutti –, ecco le lenzuolate offerte all’Unione Sarda per dire e documentare quanto fossero interne alla lottizzazione pubblica quelle forze che rivendicavano a sé verginità riformatrici.
Nel 1998 l’accostamento a Francesco Cossiga e al suo UDR con una microformazione detta di Unità Repubblicana.
Ma intanto il dolore grande – così nel 1995 – di una quiescenza imposta dal vertice obbedienziale in ottemperanza a un accordo firmato dal nuovo gran maestro Gaito e dal prefetto Parisi, capo della polizia di Stato: sarebbe bastato un avviso di garanzia per far scattare in automatico la sospensione di un aderente al Grande Oriente d’Italia. Doloroso pedaggio pagato al bisogno di recupero di credibilità pubblica di una Obbedienza storica rivelatasi però, in alcune sue stagioni, incapace di una griglia selettiva quanto serviva nelle complessità chiaroscure soprattutto della Calabria e della Sicilia ma poi anche di altre parti d’Italia.
Quante interviste libere, quante conferenze organizzate qua e là. Ce n’era stata una, di conferenza o tavola rotonda cui egli aveva presenziato, già nelle funzioni onorifiche di emerito. Era stato il 15 marzo 1993, dove? a Sassari, in questa aula magna, presente il rettore Palmieri e il prorettore Paglietti, presenti due dei maggiori massonologi italiani, il professor Mola e don Rosario Esposito, paolino. Moderatore nientemeno che l’avv. Giuseppe Melis Bassu. Titolo della tornata di dibattito: “La libertà d’associazione: il caso della Massoneria”, il patrocinio quello del club UNESCO.
Nell’età avanzante sempre più, nelle crescenti difficoltà della salute, il sogno di Armando Corona di un recupero di relazione e di presenza nel mondo massonico. Irrealizzato quello del ripristino di un rango tutto suo nel Grande Oriente d’Italia, ecco la “rete” incongrua di un’altra Obbedienza e la triste consegna di un uomo di gran valore, ormai più che ottuagenario ed infermo, a chi, per conquistarselo tutto, lo fa Sovrano d’un rito che egli – in quanto gran maestro del GOI – s’era sempre fatto vanto di non aver avvicinato né nella sua genealogia massonica né nelle sue ambizioni d’ogni specie: non certo per supponenza (ché anzi con i Riti – una sorta di scuola di specializzazione filosofica per i Maestri della loggia, con libertà di domanda e assunzioni però discrezionali – aveva firmato vari protocolli da gran maestro) ma perché, personalmente, si sentiva pago delle suggestioni formative proprie della Massoneria azzurra, quelle della piccola simbolica piramide. E di più, in quella ultima sua tremenda stagione: affiancato a chi o da chi – parlando anche per lui – tesseva le lodi di un eterno Licio Gelli, così volgarmente misconoscendo tutta l’opera di bonifica compiuta negli anni remoti di governo dell’Ordine.
Vado alla conclusione. Non so se si possa davvero storicizzare una qualche personalità che ci abbia lasciato soltanto da pochi anni. Forse no. Può però compiersi uno sforzo di oggettivizzazione, ballando fra il dovere della lucidità e dell’imparzialità descrittiva e, come nel mio caso e con riguardo speciale ad Armandino Corona, il senso o il trasporto della testimonianza per una consuetudine che, seppure per blocchi temporali e in forme diverse, è durata quasi quarant’anni. Cominciando nelle sale di partito ai primi del 1971, quando egli e il movimento sardo-autonomista confluirono nel Partito Repubblicano Italiano, alla cui federazione giovanile io aderivo già da qualche mese.
Do onore al Grande Oriente d’Italia, e per esso alla Fratellanza liberomuratoria sarda e cagliaritana in particolare, per la volontà, espressa chiara e nobile, di accogliere in camera ardente la salma del suo gran maestro nell’ottennio 1982-1990, quando si diffuse la notizia dolorosa della sua morte, del suo passaggio all’Oriente Eterno. Ciò, nonostante le vicende ultime e le rotture.
Ogni volta che il mio Archivio storico generale della Massoneria sarda, che pure ha respiro interobbedienziale, promuove i percorsi cimiteriali guidati, la tappa davanti alla sua tomba al civico di San Michele, e l’indugio per la lettura dei tratti biografici essenziali e magari qualche testimonianza personale, è impegno gradito e sentito come una necessità.
Quel che mi è importato e m’importa è evitare celebrazioni o agiografie, ma dare riconoscimento di valore e nobiltà nelle sintesi complessive, che assorbono anche le cadute – o quelle che noi riteniamo tali –, perché non è un santo che noi dobbiamo accostare; non è un santo come con tentazione acritica qualcuno, in tempi passati, mi è parso avesse inteso materializzarlo, traendolo dalle complessità delle fatiche della vita, così come certissimamente non era quel belzebù che, con dileggio ideologico strisciante e qualche volta anche gridato, altri hanno, per contro, disegnato sui giornali o nei passaparola da perditempo. Era invece, Armando Corona, un uomo davvero complesso, contraddittorio come tutti siamo – ciascuno nella sua misura – contraddittori, uomo di enormi riserve e potenzialità, di importanti realizzazioni e anche, talvolta, di insufficiente prudenza nella selezione dell’agenda e delle interlocuzioni.
Fu capace di una certa visionarietà, cioè di prospettazioni di nuove stagioni così nella professione – una pagina tutta da studiare sarebbe il mix dell’assistenza sanitaria fra pubblico e privato come s’è compiuto nell’Isola per lunghi decenni – così come nella politica – si pensi soltanto, dopo che alla separazione da certo nazionalitarismo da brividi nel campo sardista, alla tessitura delle intese per l’unità autonomistica, per meglio equilibrare, nel negoziato con i poteri centrali dello Stato, la forza contrattuale della Sardegna – ed anche nel governo massonico del drammatico post-Gelli, combattendo quel piduismo che compromissioni di vertice ebbe nel Grande Oriente d’Italia. Seppe catalizzare o canalizzare attorno a sé molte intelligenze, molti talenti. Non valutò a sufficienza invece, in più occasioni, come una tempistica sbagliata ma soprattutto l’improvvido accostamento a elementi di dubbia onorabilità potesse compromettere il risultato della stessa sua opera faticata.
Il suo più è stato, al netto di tutto, nel meglio. E questa è la mia firma.
Do onore al Grande Oriente d’Italia, e per esso alla Fratellanza liberomuratoria sarda e cagliaritana in particolare, per la volontà, espressa chiara e nobile, di accogliere in camera ardente la salma del suo gran maestro nell’ottennio 1982-1990, quando si diffuse la notizia dolorosa della sua morte, del suo passaggio all’Oriente Eterno. Ciò, nonostante le vicende ultime e le rotture.
Ogni volta che il mio Archivio storico generale della Massoneria sarda, che pure ha respiro interobbedienziale, promuove i percorsi cimiteriali guidati, la tappa davanti alla sua tomba al civico di San Michele, e l’indugio per la lettura dei tratti biografici essenziali e magari qualche testimonianza personale, è impegno gradito e sentito come una necessità.
Quel che mi è importato e m’importa è evitare celebrazioni o agiografie, ma dare riconoscimento di valore e nobiltà nelle sintesi complessive, che assorbono anche le cadute – o quelle che noi riteniamo tali –, perché non è un santo che noi dobbiamo accostare; non è un santo come con tentazione acritica qualcuno, in tempi passati, mi è parso avesse inteso materializzarlo, traendolo dalle complessità delle fatiche della vita, così come certissimamente non era quel belzebù che, con dileggio ideologico strisciante e qualche volta anche gridato, altri hanno, per contro, disegnato sui giornali o nei passaparola da perditempo. Era invece, Armando Corona, un uomo davvero complesso, contraddittorio come tutti siamo – ciascuno nella sua misura – contraddittori, uomo di enormi riserve e potenzialità, di importanti realizzazioni e anche, talvolta, di insufficiente prudenza nella selezione dell’agenda e delle interlocuzioni.
Fu capace di una certa visionarietà, cioè di prospettazioni di nuove stagioni così nella professione – una pagina tutta da studiare sarebbe il mix dell’assistenza sanitaria fra pubblico e privato come s’è compiuto nell’Isola per lunghi decenni – così come nella politica – si pensi soltanto, dopo che alla separazione da certo nazionalitarismo da brividi nel campo sardista, alla tessitura delle intese per l’unità autonomistica, per meglio equilibrare, nel negoziato con i poteri centrali dello Stato, la forza contrattuale della Sardegna – ed anche nel governo massonico del drammatico post-Gelli, combattendo quel piduismo che compromissioni di vertice ebbe nel Grande Oriente d’Italia. Seppe catalizzare o canalizzare attorno a sé molte intelligenze, molti talenti. Non valutò a sufficienza invece, in più occasioni, come una tempistica sbagliata ma soprattutto l’improvvido accostamento a elementi di dubbia onorabilità potesse compromettere il risultato della stessa sua opera faticata.
Il suo più è stato, al netto di tutto, nel meglio. E questa è la mia firma.
lunedì 18 dicembre 2017
Nel modenese a gennaio l’inaugurazione del monumento per il patriota Pietro Giannone
Un monumento per il patriota Pietro Giannone
“Il ritorno dell’Esule”. Il Comune di Camposanto in provincia di Modena dedicherà il 13 gennaio una manifestazione alla memoria di Pietro Giannone, poeta e patriota, cui la piccola cittadina dell’Emilia Romagna diede i natali il 14 marzo 1791. Amico di Ugo Foscolo e poi di Giuseppe Mazzini, Giannone aderì alla Giovine Italia e si battè per la libertà dell’Italia. Il 3 novembre i suoi resti sono finalmente stati traslati nel Cimitero del suo paese natale, che lo ricorderà con una giornata a lui dedicata organizzata dall’Amministrazione Comunale in collaborazione con il Grande Oriente d'Italia, con il comune di Firenze, l’Istituto per la Storia del Risorgimento, il Comitato di Modena, l’Istituto Comprensivo di San Felice sul Panaro e Camposanto. Il primo appuntamento è alle ore 15, quando nel cimitero cittadino verrà scoperto il monumento che gli è stato dedicato alla presenza del sindaco Antonella Baldini, del parroco don Valter Tardini, dell’assessore all’Istruzione della regione Patrizio Bianchi, dello scultore autore del busto Orazio Vitaliti e David Materassi. Presso l’Aula Magna della scuola a lui intitolata seguirà un convegno al quale prenderanno parte il professor Giovanni Greco, il professore e Grande Oratore del Goi Claudio Bonvecchio, il professore Giorgio Monetecchi, il professore Guido Ragazzi. Modererà Luca Gherardi, assessore alla Cultura.
lunedì 11 dicembre 2017
venerdì 8 dicembre 2017
Covegno il 16 dicembre a Sassari dedicato ad Armando Corona

I relatori ne delineeranno la figura del massone, del politico e del medico. Tra gli altri, lo storico, Gianfranco Murtas tratterà a 360 gradi “l’umanità integrale” di “Armandino”, l’on Pietrino Soddu, all’epoca Presidente della Regione Sardegna, ci parlerà del politico nel progetto dell’unità autonomistica della fine degli anni settanta, il dott. Sergio Vacca, dell’eclettismo poliedrico.
Presenterà e modererà il convegno Giancarlo Lucchi.
Chiuderà i lavori, il dott. Stefano Bisi, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia.
Il Grande Oriente d’Italia, ormai da tempo si è aperto alla società profana per affermare e testimoniare con forza i valori universali della massoneria per il progresso dell’umanità.
ALLEGATI
- locandina Convegno G.M. Armando Corona sabato 16 dicembre 2017 SassariDimensione: 682 KB
giovedì 7 dicembre 2017
lunedì 4 dicembre 2017
I profili biografici dei massoni salentini. La presentazione del volume il 12 dicembre a Lecce
Autore di tanti testi di filosofia e di storia, Mario De Marco, ha dedicato ben otto volumi alle vicende della Massoneria salentina tracciandone per la prima volta la storia, non trascurando nel contempo i percorsi esistenziali ed iniziatici di molti di coloro che appartennero, sin dal XVI secolo, essenzialmente alle logge dell’Oriente di Lecce, Gallipoli e Brindisi. Ora rilancia, per le Edizioni del Grifo di Lecce, la seconda edizione, riveduta ed ampliata de I profili biografici di Massoni salentini che, già pubblicati nel 2007, riscossero soprattutto nel mondo profano un enorme successo, contribuendo così alla migliore delineazione della storiografia dell’estrema propaggine d’Italia, storia che per pregiudizi ha trascurato e trascura il ruolo sociale e culturale di tanti illustri cittadini che hanno lavorato con squadra e compasso. Il volume sarà presentato il 12 dicembre alle 18,30 presso la Fondazione Palmieri, in vico dei Sotterranei 21 a Lecce. Introdurrà il prof. Alessandro La Porta. Interverranno insieme all’autore l’architetto Enzo Parlangeli e l’avvocato Domenico Valletta.
Massone da circa quaranta anni, Mario De Marco ha sopperito con le sue pubblicazioni massoniche a tali carenze e questo suo libro, ricco di tante notizie e documenti reperiti in oltre quindici anni di febbrile ricerca presso famiglie ed archivi pubblici e privati, in 421 pagine, annovera ben 450 profili biografici di Massoni salentini che si distinsero in ogni campo sociale, contribuendo notevolmente all’elevazione morale e civile delle genti meridionali. Il libro, presentato dai fratelli Enzo Parlangeli e Domenico Valletta, si avvale anche del prestigioso contributo del prof. Alessandro Laporta, già direttore della Biblioteca provinciale di Lecce, intitolata a Nicola Bernardini che fu attivo massone e direttore della suddetta biblioteca tra il XIX e il XX secolo.
Come per le altre pubblicazioni di Mario De Marco il volume, che sta avendo vasta eco sulla stampa locale, è stato presentato e si presenterà presso scuole ed enti culturali di Lecce e di altri centri salentini.
martedì 28 novembre 2017
venerdì 24 novembre 2017
mercoledì 22 novembre 2017
Son et Lumiere, Arti e Massoneria. Alessandro Cecchi Paone presenta al Conservatorio di Milano una serata di grande prestigio
Nell'ambito delle celebrazioni per i 300 anni della Massoneria si svolgerà a Milano, nella Sala Verdi del Conservatorio, un evento presentato da Alessandro Cecchi Paone intitolato "Son et Lumiere", con il concerto “Arpeinsieme” diretto dal Maestro Gianrosario Presutti, l'esibizione del baritono Franco Vassalli, accompagnato al piano dalla Prof.ssa Beatrice Benzi e l'esibizione di Walter Rolfo. Quello della musica con la Massoneria è un rapporto molto intenso, a partire dal musicista più noto di tutti, Mozart, che ai 'fratelli' dedicherà le pagine più belle delle sue ultime opere e un capolavoro immortale come Il flauto magico. Nel corso della serata Cecchi Paone intervisterà il Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia Stefano Bisi.
Pubblicato da ArcoReale
martedì 21 novembre 2017
In ricordo del Fratello Voltaire
«I piaceri sensuali passano e svaniscono in un batter d'occhio, ma l'amicizia tra noi, la reciproca confidenza, le delizie del cuore, l'incantesimo dell'anima, queste cose non periscono, non possono essere distrutte. Ti amerò fino alla morte».
Oggi nel 1694 nasceva il massone Voltaire.
Pubblicato da ArcoReale
giovedì 16 novembre 2017
È ufficiale: l'Inno della Repubblica è “Il Canto degli Italiani”. Scritto dal Fratello Goffredo Mameli
È ufficiale: l'Inno della Repubblica è “Il Canto degli Italiani”.
Scritto dal Fratello Goffredo Mameli, “Fratelli d'Italia" era provvisorio dal 1946.
Ascoltalo qui > http://chirb.it/0n8krm
giovedì 9 novembre 2017
Massoni Illustri: Antonio De Curtis in arte Totò
Totò nacque a Napoli il 15 febbraio 1898, da una madre single.
C’è chi afferma che fosse figlio del marchese Giuseppe De Curtis, il quale non avrebbe potuto riconoscerlo a causa della contrarietà della sua famiglia; ma secondo altri questa discendenza non è certa, ed è vero invece che nel 1933 sarebbe stato adottato dal marchese Francesco Maria Gagliardi Focas, che gli avrebbe dato il suo nome (è peraltro un fatto accertato che, nel 1924, la mamma di Totò si sposò con Giuseppe De Curtis).
Comunque sia, si dovette arrivare al 1946 perché Antonio De Curtis fosse legalmente riconosciuto come Antonio Griffo Focas Flavio Dicas Commeno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio; Altezza Imperiale, Conte Palatino, Cavaliere del sacro Romano Impero, Esarca di Ravenna, Duca di Macedonia e di Illiria, Principe di Costantinopoli, di Cicilia, di Tessaglia, di Ponte di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, Conte di Cipro e di Epiro, Conte e Duca di Drivasto e Durazzo.
L’atteggiamento del grande attore nei confronti dei propri titoli nobiliari era duplice e scherzoso. Da un lato ci teneva molto, considerandoli una testimonianza da portare avanti perché la memoria storica non andasse perduta; dall’altro era consapevole che nella società contemporanea avevano perso gran parte del loro significato, ed evitò sempre di avvalersene come strumento di autoaffermazione.
Soltanto dopo aver preso parte alla grande guerra il giovane Totò poté intraprendere la carriera del palcoscenico. A partire dal 1922 fu scritturato dal Teatro Umberto di Roma, prima come attore di varietà e poi di rivista; grandi consensi gli vennero dall’interpretazione di scenette nelle quali i suoi personaggi monologavano, cantavano o si intrattenevano scherzosamente con le attrici.
Il giovane e promettente comico riscuoteva grande successo con le donne. Una tragedia lo segnò nel 1931, quando una famosa soubrette innamorata di lui si tolse la vita. Totò ne rimase sconvolto fino al punto di accogliere le spoglie della giovane nella sua tomba di famiglia.
Quattro anni dopo sposò Diana Rogliani, e dalla loro unione nacque la figlia Liliana.
Il grande salto della sua carriera fu l’incontro col cinema, avvenuto nel 1938. Dopo un avvio stentato, il grande successo di pubblico lo avrebbe raggiunto nel dopoguerra.
Complessivamente Totò interpretò 97 film, e il tributo al suo genio comico divenne universale. Gli fu anche d’aiuto l’eccelsa qualità dei partner che di volta in volta aveva a fianco: Macario, Nino Taranto, Aldo Fabrizi, Anna Magnani, Peppino De Filippo…
Dalla seconda compagna, la bellissima Franca Faldini, Totò ebbe un figlio di nome Massenzio, che morì appena nato. Fu forse da questo dispiacere che sorse il suo grande impegno nei confronti dell’infanzia abbandonata: visitava gli orfanotrofi e portava regali a tutti i bambini, spendendo in queste imprese addirittura di più di quanto i suoi pur cospicui guadagni di attore gli potessero permettere. In questo aspetto della sua personalità, egli impersonava perfettamente il concetto (tratteggiato in così tanti perfezionamenti del grado di Maestro massonici) del santo laico: la persona che fa del bene non in vista di un’improbabile ricompensa nell’altromondo, ma perché ritiene suo dovere rendere più vivibile questo.
Il suo invincibile amore si estendeva anche agli animali: comprò un canile fatiscente e lo ristrutturò per ospitare il più gran numero possibile di cani randagi, e quasi tutti i giorni vi si recava per accertarsi che venissero trattati bene.
Quest’uomo dinnanzi al quale tutti dovremmo toglierci il cappello se ne andò improvvisamente nella notte del 14 aprile 1967. Il lutto fu generale al punto che dovettero essere celebrati ben tre funerali: il primo a Roma, il secondo a Napoli (con una partecipazione stimata di duecentocinquantamila persone) e un terzo nel Rione Sanità, da dove era venuto e che non aveva mai dimenticato.
La vocazione massonica di Totò aveva preso forma negli anni quaranta, frutto di una crisi spirituale molto intensa, della quale purtroppo sono rimaste soltanto testimonianze verbali.
La spinta più importante gli era venuta dall’impulso ad adoperarsi per il bene degli altri: così, quando era venuto a conoscenza delle grandi iniziative di beneficenza che la Massoneria svolge in segreto, non prendervi parte sarebbe stata ai suoi occhi quasi una colpa.
Questo concetto venne sottolineato, parecchi anni dopo la sua scomparsa, da Renzo Arbore, che in TV dichiarò: Credo Totò che avesse molto forte il senso della solidarietà e della filantropia, ed in questo senso era Massone.
Nelle sue dichiarazioni in proposito, Totò non fece mai riferimento alla Massoneria come strumento di potere. Al contrario, aveva saputo coglierla fin dall’inizio nella sua vera natura: un cammino spirituale indipendente, la cui principale bellezza consiste nella libertà.
Secondo chi lo conobbe, Totò non era stato un uomo particolarmente religioso, ma a modo suo credeva: credeva in un’entità superiore (…) e non ammetteva che qualcuno usasse espressioni volgari o linguaggio irriguardoso nei suoi riguardi.
Non credeva ad un’altra vita dopo la morte; anzi affermava che se dovessero esserci, come si dice, Paradiso, Purgatorio e Inferno, bene: l’inferno lo stiamo vivendo in questo mondo da quando si nasce, e dall’altro mondo nessuno è mai tornato a descriverlo.
Quando in un’intervista gli chiesero cosa fosse per lui la Massoneria, rispose: serve soltanto per il miglioramento di sé stessi. I gradi, i grembiulini, le onorificenze e altre finalità profane non hanno niente a che vedere.
Era stato iniziato il 9 aprile 1945 presso la Rispettabile Loggia Palingenesi di Napoli. Nel suo testamento (un questionario che viene compilato da tutti i profani all’atto della loro ammissione in Massoneria), alla domanda Che cosa dovete all’umanità? aveva risposto: Amare il prossimo come sé stessi, aiutarlo e fare del bene, senza limiti di sorta; ed a quella Che cosa dovete a voi stesso?: Niente, all’infuori del miglioramento spirituale.
In tempi successivi lo ritroviamo tra i fondatori della Fulgor Artis di Roma, la celebre Loggia degli artisti, della quale fu Venerabile. Fecero parte della Fulgor Artis attori del calibro di Mario Castellani, Carlo Campanini, Aldo Silvani, Carlo Rizzo e Vittorio Caprioli; e non sono questi i soli personaggi dello spettacolo che poterono gloriarsi della maestranza massonica - per fare solo pochi nomi possiamo ricordare Gorni Kramer, Gino Cervi, Carlo Dapporto, Paolo Stoppa e Aldo Fabrizi.
Totò prese parte anche al Rito Scozzese Antico e Accettato, raggiungendo il 30° grado (il 33° gli fu rilasciato postumo ad honorem) e lasciandovi il ricordo di una devozione massonica e di un’umiltà davvero fuori dal comune; in contrasto con gli onori pubblici di cui beneficiava grazie al suo lavoro nel mondo profano, dei quali mai volle approfittare (né addirittura parlarne!) in qualità di Massone.
Come in tutte le scelte della sua vita, anche nel caso della sua adesione alla Massoneria Totò non tenne in minimo conto le controindicazioni di carattere sociale, che allora come oggi condannano il Massone alla diffidenza e alle calunnie dei conformisti e degli ignoranti.
In quegli anni contrassegnati dal bigottismo pseudoreligioso, quella scelta gli fruttò l’ostilità di molti potenti, talvolta costandogli la perdita di offerte di lavoro e danni non indifferenti tanto sul piano professionale quanto economico.
Ma non erano certo queste pinzillacchere a trattenerlo dalla sua vocazione, consapevole come egli era del fatto che l’amore del pubblico gli veniva dall’apprezzamento della sua sincerità in ogni atto della vita - quella stessa indole schietta che traspare dalle sue prestazioni cinematografiche, componente non ultima dello sviscerato amore che il pubblico nutriva per lui.
Come è noto Totò fu anche autore di canzoni (tra cui la famosa Malafemmena), poeta e scrittore. Alcuni tra i suoi migliori scritti riverberano la luce massonica di cui era portatore, e tra questi il più noto è senz’altro la poesia A’ livella, che fu solennemente e pubblicamente recitata in occasione della Gran Loggia del 2016 del GOI.
La Livella, simbolo di Uguaglianza, è uno dei più fondamentali strumenti dell’arte muratoria. Quando un Apprendista viene elevato a Compagno d’Arte, si dice che passa dalla Perpendicolare alla Livella; questo significa che è maturo per applicare gli insegnamenti ricevuti al piano del sociale.
Ogn’anno, il due novembre, c’è l'usanza
per i defunti andare al Cimitero.
Ognuno l’adda fa’ chesta crianza;
ognuno adda tené chistu penziero.
Ogn’anno puntualmente, in questo giorno,
di questa triste e mesta ricorrenza,
anch'io ci vado, e con i fiori adorno
il loculo marmoreo ‘e zi’ Vicenza.
St’anno m’è capitata n’avventura...
dopo di aver compiuto il triste omaggio
(Madonna, si ce penzo, che paura!)
ma po’ facette un’anema ‘e curaggio.
O fatto è chisto, statemi a sentire:
s'avvicinava l'ora d’a chiusura,
io, tomo tomo, stavo per uscire,
buttando un occhio a qualche sepoltura:
“Qui dorme in pace il nobile Marchese
Signore di Rovigo e di Belluno,
Ardimentoso eroe di mille imprese,
Morto l’11 maggio del trentuno.
O stemma cu a curona ‘ncoppa a tutto...
Sotto,’na croce fatta ‘e lampadine;
tre mazze ‘e rose cu ‘na lista ‘e lutto,
cannele, cannelotte e sei lumine.
Proprio azzeccata ‘a tomba ‘e stu signore,
nce steva n’ata tomba piccerella,
abbandunata, senza manco un fiore;
pe’ segno, solamente ‘na crucella.
E ncoppa ‘a croce, appena si liggeva:
Esposito Gennaro, netturbino.
Guardannola, che pena me faceva
stu muorto senza manco nu lumino!
Questa è la vita, ncapo a me penzavo:
chi ha avuto tanto e chi nun ave niente!
Stu povero, maronna, s’aspettava
ca pure all’atu munno era pezzente?
Mentre fantasticavo stu penziero,
s’era già fatta quase mezanotte,
e i’ rummanette chiuso priggiuniero,
muorto ‘e paura, nnanze e cannelotte.
Tutto a nu tratto, che veco a luntano?
Doje ombre avvicenarse a parte mia.
Penzaje: stu fatto a me mme pare strano...
Stongo scetato, dormo, o è fantasia?
Ate che fantasia: era o Marchese,
c’o tubbo, a caramella e c’o pastrano;
chill’ato appriesso a isso, un brutto arnese,
tutto fetente e cu na scopa mmano.
E chillo certamente è don Gennaro,
o muorto puveriello, o scupatore.
Int’ a stu fatto i’ nun ce veco chiaro:
so’ muorte e se retireno a chest’ora?
Putevano stà a me quase nu palmo,
quando o Marchese se fermaje e botto,
s’avota e, tomo tomo, calmo calmo,
dicette a don Gennaro: “Giovanotto!
Da voi vorrei saper, vile carogna,
con quale ardire e come avete osato
di farvi seppellir, per mia vergogna,
accanto a me, che sono un blasonato!
La casta è casta e va sì rispettata,
ma voi perdeste il senso e la misura:
la vostra salma andava, sì, inumata,
ma seppellita nella spazzatura!
Ancora oltre sopportar non posso
la vostra vicinanza puzzolente:
fa d’uopo, quindi, che cerchiate un fosso
tra i vostri pari, tra la vostra gente.”
“Signor Marchese, nun è colpa mia,
i’ nun v’avesse fatto chistu tuorto;
mia moglie è stata a fa’ sta fessaria,
i’ che putevo fa’, si ero muorto?
Si fosse vivo ve farie cuntento,
pigliasse ‘a casci lella cu ‘e quatt’osse
e proprio mo, obbj’, nd’a stu mumento
me ne trasesse dinto a n’ata fossa.”
“E cosa aspetti, o turpe malcreato,
che l’ira mia raggiunga l’eccedenza?
Se io non fossi stato un titolato,
avrei già dato piglio alla violenza!”
“Famme vedé... piglia sta violenza!
A verità, Marché: mme so’ scucciato,
e te senti, e si perdo ‘a pacienza
me scordo ca so’ muorto, e so’ mazzate!
Ma chi te cride d’essere, nu dio?
Cà dinto, o vuò capì, ca simmo eguale!
Morto sì tu e muorto so’ pur io;
ognuno comme a n’ato è tale e quale.”
“Lurido porco! Come ti permetti
paragonarti a me, ch’ebbi natali
illustri, nobilissimi e perfetti,
da fare invidia a principi e reali?”
“Tu qua’ Natale, Pasca e Pifania!
T’o vuo’ mettere ncapo, int’a cervella
che staje malato ancora ‘e fantasia?
A morte, o saje ched’è? È una livella!
Nu re, nu maggistrato, nu grandommo,
trasenno stu canciello, ha fatt’o punto;
c’ha perzo tutto, a vita e pure o nomme,
tu nun t’e fatto ancora chistu cunto?
Perciò, stamme a senti: nun fa’ o restivo,
suppuorteme vicino, che te mporta?
Sti pagliacciate e fanno sulo e vive;
nuje simmo serie, appartenimmo a-a morte.”
Un altro scritto di Totò, meno noto, è La Preghiera del Clown; ed è bene concludere con questa, perché ci spalanca la prospettiva dell’intimo e quasi affettuoso rapporto coltivato dal grande attore con il Grande Architetto dell’Universo.
Noi ti ringraziamo, nostro buon Protettore, per averci dato anche oggi la forza di fare il più bello spettacolo del mondo. Tu che proteggi uomini, animali e baracconi, tu che rendi i leoni docili come gli uomini e gli uomini coraggiosi come i leoni, tu che ogni sera presti agli acrobati le ali degli angeli, fa che sulla nostra mensa non vengano mai a mancare pane ed applausi.
Noi ti chiediamo protezione; ma se non ne fossimo degni, se qualche disgrazia dovesse accaderci, fa che avvenga dopo lo spettacolo e, in ogni caso, ricordati di salvare prima le bestie e i bambini.
Tu che permetti ai nani e ai giganti di essere ugualmente felici, tu che sei la vera, l’unica rete dei nostri pericolosi esercizi, fa che in nessun momento della nostra vita venga a mancarci una tenda, una pista e un riflettore.
Guardaci dalle unghie delle nostre donne, ché da quelle delle tigri ci guardiamo noi. Dacci ancora la forza di far ridere gli uomini, di sopportare serenamente le loro assordanti risate, e lascia pure che essi ci credano felici.
Più ho voglia di piangere, più gli uomini si divertono; ma non importa, io li perdono, un po’ perché essi non sanno, un po’ per amor Tuo, un po’ perché hanno pagato il biglietto.
Se le mie buffonate servono ad alleviare le loro pene, rendi pure questa mia faccia ancora più ridicola; ma aiutami a portarla in giro con disinvoltura.
C’è tanta gente che si diverte a far piangere l’umanità, noi dobbiamo soffrire per divertirla. Manda, se puoi, qualcuno su questo mondo capace di far ridere me come io faccio ridere gli altri.
di Giovanni Domma
Una Loggia a Modica dopo 95 anni. E' intitolata al Fratello Salvatore Quasimodo, premio Nobel per la Letteratura
La Massoneria del Grande Oriente d'Italia continua a crescere in Sicilia.
Il 4 novembre, dopo 95 anni di assenza, a Modica è stata inaugurata una nuova Loggia intitolata all'illustre Fratello Salvatore Quasimodo, poeta e Premio Nobel per la Letteratura, nato qui nel 1901.
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