di Gianfranco Murtas (www.fondazionesardinia.eu)
Siamo ad un nuovo 24 ottobre. Questo segna il sesto anniversario della morte di Fabio Maria Crivelli, per un quarto di secolo direttore de L’Unione Sarda, protagonista – dal suo ufficio redazionale – della vita civile cagliaritana e sarda da lui marcata dettando linee editoriali, o politico-editoriali, comunque di impatto sul vasto pubblico di lettori e meritevoli di un ripasso critico, fuori dalle contingenze alleate o avversarie. Il tempo è propizio, lo è non da oggi. Ma ciò ancora è mancato e manca, ed è un torto grande che il suo giornale – che pur tanto ha prodotto, a latere della tiratura del quotidiano, con le collane monografiche – ha reso alla sua memoria, perfino inventando anni addietro un premio a lui intitolato, ma che invece di andare a sostenere ricerche originali, tanto più di giovani studiosi e/o magari qualche tesi di laurea illustrativa ed interprete delle fatiche della testata (e della sua storica direzione), s’è perduto nelle scontate passerelle di vanagloria, dei riconoscimenti al giro degli amabili.
A me, per il tanto che sento incombere sulla coscienza ed i doveri o i debiti dell’amicizia discreta, spetta ancora di onorare tanto nome e tanta dirittura, presentando alcuni materiali forse poco noti, o del tutto ignoti, o forse dimenticati che egli ha consegnato nel tempo fertile della sua missione, a chi poteva da essi trarre spunto per elaborazioni chiamale intellettuali o civili, e direi prima di tutto morali, perché collocate sul fronte delicato dei nessi fra l’essere e il darsi sociale.
Ho detto e scritto varie volte della sua militanza liberomuratoria, a tanto autorizzato da quanto egli stesso ritenne di comunicare, attraverso una lunga lettera pubblicata sul suo vecchio giornale il 24 ottobre (coincidenze di calendario!) 1993, all’indomani della puramente pettegola ostensione delle liste degli appartenenti alle logge sarde. Allora – mi si conceda questo rapido appunto di testimonianza – ci si sorprese da più parti, e soprattutto dalla sinistra ex PCI fattasi PDS (alcuni cui esponenti cercavano, e non trovarono, i nomi dei loro compagni da crocifiggere), della presenza di nomi nobili della intellettualità democratica e progressista isolana, da Vindice Ribichesu a Virgilio Lai, da Gianfranco Contu a, appunto, Fabio Maria Crivelli, ad altri cinquanta portatori dei migliori valori della multianime cultura repubblicana e socialista, liberale e cattolico-liberale, radicale ed autonomista radicatasi nella nostra storia. Ché la Massoneria è e deve essere teatro di coscienze libere e anticonformiste, aperte e cercatrici o costruttrici del nuovo, benché gelose custodi della tradizione intesa come dinamico e vitale deposito di sapienza umanistica (e per questo credo che le sbandate penosamente destrorse di molti o troppi, negli ultimi vent’anni, siano valse come una bestemmia: ché un massone è spirito naturaliter critico verso formalismi e convenzioni dottrinarie, è problematico ed antiplebiscitario per marchio di coscienza, coltiva il senso dello Stato e capisce la differenza fra uno statista e un demagogo, sa bene che gli onori alla bandiera – simbolo di una comunità allignata nella democrazia di tanto faticata conquista – non possono essere offesi dalle rozze convenienze elettorali di alcuno, anche di incolti ministri faciloni, populisti e spergiuri. Niente a che vedere, evidentemente, con la statura degli epigoni cavouriani e fedeli monarchici della destra storica a molti dei quali si deve, prima e di fianco a Garibaldi gran maestro, l’impianto iniziale dell’Obbedienza nazionale).
Qui ricorderò soltanto che l’adesione di Fabio Maria Crivelli alla Massoneria del Grande Oriente d’Italia, nelle forme ritenute allora più opportune (essendo egli direttore in carica del giornale), avvenne il 25 settembre 1970, pochi giorni dopo le solenni celebrazioni del centenario della storica e santa breccia di Porta Pia. L’adesione ideale, e comunque formale, si tradusse però in militanza di servizio, con il grado di Maestro, soltanto il 23 aprile 1985, nel tempo della cincinnatica quiescenza sinnaese, all’interno della loggia cagliaritana portante il titolo distintivo di Sardegna (con sede ancora a Genneruxi). Il 17 marzo dell’anno successivo egli assunse le funzioni di 2° Sorvegliante (terza dignità dell’ensemble rituale) della Francesco Ciusa, nel frattempo gemmata – anche con il suo qualificante contributo – dalla loggia madre.
Intanto, il 3 febbraio 1986, aveva “tracciato” – come usa dirsi nel simbolico linguaggio muratorio – una tavola dal titolo “Pascal e Voltaire: Fede e Ragione”. Undici cartelle dattiloscritte, con diverse correzioni a mano, ch’egli mi volle poi donare, con altre carte, ed una cui sintesi apparve sul numero di aprile 1986 della rivista ufficiale del GOI, “Hiram”.
Ripubblicai quel testo nel quaderno “omaggio a Fabio Maria Crivelli – Il giornalismo, il teatro, la memorialistica, la massoneria”, uscito nel secondo anniversario della morte, il 24 ottobre 2011, ad alcuni mesi di distanza da un reading che allestii – era il 29 gennaio 2011 – a palazzo Sanjust, contando sulla generosa partecipazione di amici lettori, fra i quali alcuni ragazzi dell’istituto scolastico Meucci.
Ad onorare la memoria di Fabio Maria Crivelli può valere oggi riproporre quelle pagine che, a leggerle attentamente, rivelano anche aspetti della più intima biografia del suo estensore, fino a farsi scoperte nelle ultime righe, commoventi e virtualmente testamentarie.
Pascal e Voltaire, una lettura cagliaritana
«Oltre tre secoli fa, il 19 agosto 1662, moriva, a soli trentanove anni di età, Blaise Pascal, uno dei grandi maestri del pensiero europeo, colui che ancora resta alfiere del misticismo cattolico nella tormentata storia dell’evoluzione religiosa che in ogni epoca è stata ricca di contrasti ripensamenti, cadute e conquiste. Pascal morì dopo una lunga agonia nella cella di Port Royal, il monastero dei solitari che aveva scelto come dimora nove anni prima, dopo la celebre “notte di fuoco” che aveva radicalmente cambiato il corso della sua esistenza. Di questa agonia, illuminata da momenti di altissima spiritualità e rattristata da dispute che a noi, uomini del ventesimo secolo, possono apparire perfino assurde, ci ha lasciato una precisa descrizione la sorella Gilberte, la stessa che più tardi provvide a raccogliere e a tramandare attraverso la stampa alcuni dei più importanti scritti disseminati confusamente dal fratello nel tormentato epilogo della sua vita terrena. Pascal, che non aveva mai goduto di buona salute, cadde gravemente ammalato nel gennaio di quel 1662; per molti mesi continuò, se pur costretto a letto, a lavorare a quella che avrebbe dovuto essere la sua opera più importante e alla quale intendeva dare il titolo di “Apologia della religione”; ma il male gli concedeva solo poche tregue durante le quali tracciava su dei foglietti quei pensieri sublimi che furono poi pubblicati, a molti anni di distanza, e che pur nella loro frammentarietà costituiscono un’opera di altissimo valore letterario e spirituale. Egli sentiva avvicinarsi la fine e polemizzava con i medici che invece – non so se per pietà o per scarsa perizia professionale – continuavano a negare la gravità del male e lo curavano con i rimedi empirici in voga nell’epoca. Pascal ambiva solo a vivere le sue ore estreme in perfetta armonia con la sua fede ardente; nell’ultima settimana implorava di continuo il sacerdote che veniva a confortarlo perché gli desse la comunione; ma questi non poteva impartirgli il sacramento perché a causa delle medicina ingerite di continuo non era in quello stato di digiuno che allora la Chiesa imponeva per la somministrazione dell’Eucaristia. Solo all’ultimo momento, quando dopo un gravissimo collasso che per un po’ lo lasciò come morto si riebbe con uno sforzo che a molti fece pensare ad un miracolo, il sacerdote accorse ed entrando nella stanza col sacramento gridò al morente: “Ecco Colui che avete tanto desiderato”. Pascal ebbe ancora la forza di alzarsi a metà, di sollevare il capo, di aprire il volto ad un sorriso che esprimeva una sorta di disperata felicità. Ricevette l’estremo viatico lacrimando e mentre il curato lo benediva disse le ultime parole: “Il Signore non mi abbandoni mai”.
«Oltre un secolo dopo, il 30 maggio del 1778, moriva a Parigi, all’età di 84 anni, Francois Marie Arouet, un altro grande maestro del pensiero umano, quello che tutto il mondo conosce col nome di Voltaire. La sua fine, il suo passaggio all’Oriente Eterno, fu molto più rapido, apparve a quelli che vi assistettero come il sereno tramonto di una lunghissima giornata, senza i tormenti e l’atmosfera di tragedia che accompagna il chiudersi delle esistenze umane. Voltaire si trovava a Parigi da qualche mese, vi era giunto dal castello di Ferney, in cui trascorreva una felice vecchiaia dopo i lunghi anni di lotte, di persecuzioni, di arresti e di esili che i suoi scritti gli avevano procurato. Era venuto nella capitale di quella Francia che ormai si apriva all’età dei Lumi per assistere alla rappresentazione della sua tragedia “Irene”, accolto con grandi onori e invitato a molte feste e banchetti. Si ammalò al termine di una settimana che sembrò celebrare l’apoteosi della sua vita e morì senza quasi soffrire. Ebbe il tempo di dire, in piena lucidità di spirito, queste parole in cui mirabilmente pare riassumersi tutta la sua lezione e il significato stesso della sua vicenda esistenziale: “Muoio adorando Dio, amando i fratelli, non odiando i miei nemici e detestando la superstizione”.
«Spero non sembri strano se nel tentare un raffronto fra due grandi figure della storia del pensiero, fra due uomini che primeggiano nell’arte sublime di aprire davanti alle menti mortali il difficile cammino della inesausta ricerca di valori e verità che trascendono la banale casualità del vivere, io ho cominciato descrivendo l’ultimo momento delle loro esistenze, il momento fatale che chiude il più o meno breve passaggio su questa terra per proiettarsi nell’immenso mistero dell’Aldilà. Ma mi è sembrato di cogliere, ripescandone il racconto da giovanili letture, proprio in quei due momenti, in quei due modi di morire, un significato che meglio può illuminarci sulle differenze, sulla contrapposizione, diciamo pure sul contrasto di fondo che ha separato e separa le due sfere intellettuali nelle quali si sono mossi Blaise Pascal, col suo anelito all’avventura mistica, e Voltaire con il rigore della sua razionalità.
«Un raffronto, sia detto subito, che è fatalmente soggetto a personali influssi di interpretazione e che io ho tentato, fermamente, di sottrarre agli infiniti giudizi che in tre secoli sono andati accumulandosi attorno alle due grandi figure, coll’alterno prevalere di consensi e di critiche, assai spesso con una radicalizzazione estrema che finisce col trasfigurare gli stessi connotati spirituali della materia in discussione.
Pensiero e umanità di Pascal. «Pascal è fuor di dubbio il campione della Fede; oggi nel mondo cattolico non esiste più nessuno, io credo, che non sia pronto a riconoscerlo come tale, e l’accanimento nei suoi confronti dei Gesuiti suoi contemporanei può solo essere compreso inserendolo nell’oscurità di un secolo in cui il Giansenismo, al quale egli si ispirava, veniva a turbare quello spirito di controriforma che dominava nelle alte gerarchie del clero e vedeva la Chiesa tutta dominata dalle forme di una Religione esplicata esteriormente e con rigido riconoscimento delle proprie gerarchie. Il giovanissimo genio che in pochi anni impone il suo nome all’attenzione del mondo con una serie di scoperte scientifiche, con l’enunciazione di principi matematici e geometrici di enorme importanza, con sperimentazioni che aprono nuovi orizzonti allo studio della Fisica, improvvisamente irrompe nel campo della filosofia e della teologia e rinnegando tutte le sue precedenti attitudini afferma che quelle scienze astratte non sono fatte per l’uomo; da ora in poi, egli proclama, consacrerà la sua mente alla Fede, e tutta la sua vita volgerà alla pratica della virtù, alla lotta contro le “tre conoscenze”, alla mortificazione della carne, alla frequentazione e alla cura dei sofferenti, tanto più cari quanto più malati e miseri. E infatti, da quel momento, salvo un oscuro periodo di mondanità sul quale sono fiorite molte controversie e illazioni senza prove, Pascal si dedica solo alla stesura di quelle opere (“Lettere provinciali”, “I pensieri”) che lo collocheranno nelle cime più alte della letteratura francese di ogni tempo.
«La sua decisione di abbandonare il mondo e di ritirarsi in quel monastero di Port Royal che diverrà la roccaforte del Giansenismo è preceduta da un momento di estasi che egli stesso poi definirà la sua “notte di fuoco”; entrato nella Chiesa del Monastero, dove si era recato per una visita alla sorella maggior, Jacqueline, che contro il parere dei familiari vi si era rinchiusa qualche anno prima, Blaise, dopo aver ascoltato il sermone del celebrante, rimane solo davanti al Crocifisso e “vede e sente la presenza di Dio”, trascorre molte ore in una specie di sublime deliquio, perde ogni nozione del tempo e del luogo. Quando esce dallo stato di estasi, traccia con mano tremante il ricordo delle ore indimenticabili su un foglietto che da allora fino alla morte porterà cucito all’interno egli abiti e scrive: “Certezza, certezza, sentimento, gioia, pace”.
«Siamo, fuor di dubbio, davanti ad una vera ed esplosiva crisi di conversione mistica; Pascal che già aveva posto a fondamento della sua fede la ragione e il costume ora vi aggiunge, anzi vi sovrappone, quel terzo elemento che nei “Pensieri” chiamerà “l’ispirazione”; da quel momento, anzi, gli altri due fattori perderanno per lui sempre più d’importanza e imboccherà una strada – che a molti sembrerà vicina all’eresia – per la quale il ragionamento, la filosofia, i precetti teologici possono addirittura divenire pericolosi e fuorvianti nella ricerca della Fede, nell’accostamento al Mistero di Gesù, nella conquista della salvezza. Nascono le grandi parole pascaliane, nasce quello stile limpido, della limpidezza impeccabile del cristallo, gelo e fuoco ad un tempo, che procede ora per brevi proposizioni ora per periodi involuti e complicatissimi. Talvolta il cristallo ha bagliori e guizzi, e allora, come ha scritto un critico, “hai quelle parolette alate, quei lembi di cielo, quel senso di mistero che ti strappano un grido o un singhiozzo”.
«Chi di noi, almeno una volta nella vita, non ha sentito d’improvviso messa in dubbio ogni razionale certezza nel ricordare la sua celebre frase “Tu non mi cercheresti se non mi avessi trovato”, o non si è sentito pronto a credere che “il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”?
«Partito dalla scienza, dalla più inesorabile e limpida delle scienze, la matematica, Pascal ha finito con il ritrarsene tanto che alla fine la sete del sapere non è più che una concupiscenza da combattere come le altre. Diventa allora evidente che non si può assolutamente considerare Pascal come un filosofo sistematico; i frutti delle sue analisi, spogliati della poesia che li avvolge, diventano discutibili; avrà buon giuoco Voltaire un secolo dopo a denunciare la fragilità razionale, il groviglio di contraddizioni in cui questa ricerca della verità si perde, la stranezza di un procedere verso concetti sublimi poggiando più su aforismi che su meditate progressioni logiche.
«Forse Voltaire nel suo giudizio critico ha calcato la mano quando ha affermato che Pascal era il “genio degenerato” a cui il cristianesimo aveva turbato la ragione fino al punto che durante gli ultimi anni della sua vita “vedeva sempre un abisso accanto alla sua poltrona”; ma è un fatto che la visione della vita umana vista con gli occhi del pensare di Port Royal è priva di ogni consolatoria fiducia nella possibilità di un progresso basato sulle proprie forze; la vita è per lui solo un perfido mare nel quale siamo tutti abbandonati a noi stessi e la religione – acquisita per via d’istinto e non per ragionata scelta – diventa l’unico rifugio di un’anima tormentata e debole davanti al baratro.
«E ancora: per Pascal l’uomo è un essere pieno di contraddizioni, vuole la felicità e non è in grado di procurarsela, le cose lo seducono, finché non sono sue: quando diventano sue egli ne scorge la vanità e la labilità. Anche le facoltà intellettuali dell’uomo si contraddicono, i sensi lo ingannano la fantasia lo fuorvia, la ragione stessa gli è fonte d’errore. Se scendiamo alla profondità del nostro io ecco il nostro cuore, abisso di un tempo infinito e vuoto, perpetuamente incolmabile, perpetuamente aspirante a colmarsi. Ed ecco il nostro bisogno di sfuggire di continuo a noi stessi, di distrarci dal pensiero di vivere questa vita pur già tanto breve e fuggitiva.
«E’ difficile, davanti a queste argomentazioni che appartengono tutte a “I pensieri”, la maggiore opera di Pascal, negare, come pur fanno molti suoi apologeti, ch’egli non sia un pessimista. Ma è un pessimismo che ha un valore dialettico, perché dopo aver così distrutto tutto il campo delle attività umane e dimostrato il nulla della felicità e della ragione, gli errori dei filosofi e l’inconsistenza degli empirici, Pascal fa finalmente spuntare dalle tenebre un lumicino; e può così dirci che se l’uomo in tanto volgere di secoli e di sventure non ha mai smarrito la forza di vivere è perché uno spiraglio gli si è aperto, non in fondo alla mente, ma in fondo al cuore. E’ la rivincita del sentimento contro la fredda razionalità, è la ricerca di Dio attraverso una precognizione della metafisica, è anche – come troppe volte – una giravolta contraddittoria cui Pascal s’abbandona. Perché dopo averci così a lungo dipinto l’uomo come un esile fuscello in balìa di tempeste che non gli danno scampo, eccolo scrivere una frase sublime che stando alla logica è l’esatto contrario di tutte le affermazioni precedenti. “Quand’anche l’uomo lo schiacciasse – scrive Pascal – l’uomo sarebbe più nobile di ciò che l’uccide, perché sa di morire mentre l’universo ignora il vantaggio che ha su di lui”.
«Mi pare dunque indubitabile che la dialettica entro la quale si muove il pensiero pascaliano anziché procedere rettilinea non è che l’impronta tortuosa di una sua profonda inquietudine, e che se proprio vogliamo accettare l’idea ch’egli abbia una sua filosofia dobbiamo definirla una filosofia dell’intuito, dell’istinto, del cuore, la quale lo conduce alla religione cattolica e ne fa uno dei massimi esponenti, uno dei più abili propugnatori e propagandisti.
Pensiero e umanità di Voltaire. «Voltaire si muove su sponde assai diverse e, a mio giudizio, decisamente più accostabili per l’uomo che oggi, come ieri, voglia avvicinarsi al mistero dell’esistenza senza abbandonarsi alle tentazioni dell’estasi mistica. Al centro del suo pensiero e del suo insegnamento sta l’illuminismo della ragione, la pratica della tolleranza, la fiducia nella cultura e nel progresso. Ed è davvero singolare che molti degli stessi critici che hanno compiuto sforzi prodigiosi per difendere Pascal dall’obiettiva accusa di pessimismo non esitino poi un momento ad accusare invece Voltaire di “sorridente o irridente pessimismo”. Basterebbe il racconto della lunga e fattiva vita di questa straordinaria figura per distruggere l’accusa dei suoi avversari; i tanti anni passati nell’accogliere e soccorrere i perseguitati, i poveri, le vittime di un potere tutto dominato dalla prepotenza e dai rigori di leggi ingiuste; le case che fece costruire per i senza setto, gli aiuti ai contadini sfruttati, le battaglie per modificar legislazioni inique.
«La vita di questo patriarca dell’illuminismo francese, che domina con le sue opere il cosiddetto secolo d’oro, non fu mai priva di triboli; l’imprigionamento alla Bastiglia contrassegna la sua giovinezza, l’esilio per sfuggire a nuovi arresti accompagna gli anni della maturità. Solo quando il malcontento generale avvicina la Francia al momento dei grandi cambiamenti che sfoceranno, dopo la sua morte, nella Rivoluzione, i potenti si accorgono che Voltaire con le sue intuizioni, col suo senso già moderno della storia con le sue prediche sulla suprema necessità della tolleranza, ha suonato un campanello d’allarme che potrebbe ancora evitare il peggio. Ma gli avversari non demorderanno né allora né dopo e anzi, con un errato senno del poi, accuseranno Voltaire di avere seminato con i suoi ragionamenti e le sue denunce quei germi che faranno fiorire la rivoluzione fino agli eccessi più sanguinosi e distruttivi. Senza tener in nessun conto il fatto che la prima condanna pronunciata dai giacobini trionfanti è proprio – anche se solo postuma – contro Voltaire e i suoi scritti.
«Altrettanto assurda e pur persistente è l’accusa che i suoi avversari hanno levato, e continuano a levare, contro Voltaire, quando lo definiscono un genio dell’ateismo. Basterebbe ricordare le parole pronunciate al momento della morte per smentire tale accusa, se non esistessero anche migliaia di pagine fra tutti i suoi scritti a dimostrare la sua assoluta certezza di una Presenza superiore, di una Provvidenza, di un Essere Supremo che ha originato il mondo e gli ha dato ordine, leggi, bellezza. Certo il Dio al quale si volge, adorandolo, nel momento supremo, Voltaire, ha connotati diversi da quello terribile misterioso di cui parla continuamente Pascal; ed è proprio qui che si scontrano le loro concezioni, è qui che risalta in modo nettissimo questo che è un confronto tra Fede e Ragione. Mentre il giansenista si batte con tutto l’ardore di un ispirato, di un mistico, di un passionario, per la verità unica e non dimostrabile di una sola religione, Voltaire mette a confronto tutte le esperienze religiose, non ne condanna a priori nessuna, apre all’uomo e alla sua intelligenza un ampio ventaglio di scelte che esaltano la sua libertà, la sua fondamentale sete di verità, il suo diritto alla conoscenza e alla ricerca della felicità. Perciò tutta la sua battaglia di pensatore è in favore dell’uomo e contro i mali che insidiano l’esistenza umana: il fanatismo, la superstizione, l’autocrazia, il pregiudizio, l’imperfetta conoscenza delle cose, la mancanza di chiarezza, i dogmi calati dall’alto e non discutibili. Certo, la sua visione del mondo non è tutta ottimistica e quando si diverte ad inventare Pangloss, il personaggio che è convinto di vivere nel migliore dei mondi, egli amaramente e polemicamente vuole mostrarci come, purtroppo, anche nei paesi più civili regnino la stupidità e l’ignoranza, infurino le guerre e gli odi, l’infelicità generale sia la regola e non l’eccezione.
«E tuttavia, se non ci fermiamo al solo “Candido” e leggiamo con pari attenzione le altre e tutte ugualmente notevoli opere di Voltaire, noi scopriremo che la fede di Voltaire nell’uomo visto come soggetto e come oggetto della ragione, è il vero filo conduttore della sua filosofia e che egli, lungi dall’arrendersi di fronte ad un Fato soverchiante, ha invece l’incrollabile convinzione che la sofferenza umana si può diminuire e abolire con l’intelligenza e con la cultura. Quell’invito a coltivare il proprio giardino che conclude la scintillante prosa di “Candido” non è un passivo e disilluso segnale di abbandono o di resa, ma l’incitamento ad un raccoglimento spirituale che occorre all’uomo, provato da mille sciagure, per ricominciare dall’interno del proprio io, della propria coscienza, la scelta di nuove strade, di nuove avventure, nell’eterna ricerca della saggezza e della virtù.
«A questo punto il suo contrasto di fondo con Pascal appare totale. Del resto provvide lo stesso Voltaire a renderlo visibile davanti ai posteri. Una delle sue famose venticinque lettere è tutta dedicata a controbattere, punto per punto, i più celebri “Pensieri” pascaliani. Scritto con una prosa in cui la chiarezza assume il vigore e la precisione delle occasioni più felici, questo saggio di Voltaire meriterebbe di essere letto e riletto per intero. Basterà qui, a titolo d’esempio, riportarne un paio di frasi per capire come il filosofo della Ragione, dopo aver affermato di ammirare il genio e l’eloquenza di Pascal, senta irresistibile l’impulso a combatterne le idee accusandolo, fin dalle prime righe, di mostrare l’uomo sotto una luce odiosa, di essersi accanito a dipingerci tutti come cattivi e infelici, di avere “con molta eloquenza lanciato ingiurie al genere umano”.
«Aveva infatti scritto l’autore giansenista nei suoi “Pensieri”: “Considerando la cecità e la miseria dell’uomo, e questi impressionanti contrasti che si scoprono nella sua natura e vedendo tutto l’universo muto, e l’uomo senza luce, abbandonato a se stesso, e come smarrito in questo angolo dell’universo senza sapere chi ve lo abbia messo, che cosa sia venuto a farvi, che cosa diventerà dopo la morte, sono preso dal terrore, come un uomo che trasportato dormiente su un’isola deserta e spaventato si svegliasse senza sapere dov’è, e senza avere la possibilità di uscirne, e mi meraviglio che non si sia colti dalla disperazione per uno stato così miserabile”.
«Il contrappunto di Voltaire a questa desolata visione è stringente e logico. Egli scrive: “Per conto mio quando guardo Parigi o Londra non vedo alcuna ragione per farmi prendere da questa disperazione di cui parla Pascal; vedo una città che non somiglia affatto ad un’isola deserta; ma popolosa, ricca, civile, nella quale gli uomini sono felici come la natura umana comporta. Quale saggio si sentirà pieno di disperazione perché sconosce la natura del suo pensiero, perché conosce solo alcuni attributi della materia, perché Dio non gli ha rivelato i suoi segreti? Bisognerebbe altrettanto disperarsi di non avere quattro piedi e due ali. Perché ispirarci orrore per il nostro essere? La nostra esistenza non è così infelice come vogliono farci credere. Guardare l’universo come un carcere oscuro e tutti gli uomini come dei criminali da giustiziare, è pensare da fanatico. Credere che il mondo sia un luogo di delizie nel quale non si debba avere che piaceri, è il sogno di un sibarita. Pensare che la terra, gli uomini e gli animali sono quello che debbono essere nell’ordine della Provvidenza è, credo, da uomo saggio”.
«C’è un altro punto in cui la contrapposizione fra Voltaire e Pascal tocca il nodo essenziale della loro diversità davanti al problema religioso. Pascal aveva scritto: “Si esaminino tutte le religioni del mondo e si veda se ve n’è un’altra, oltre la cristiana, che sia soddisfacente. Sarà forse quella che insegnavano i filosofi che ci propongono come bene supremo un bene che è in noi? E’ forse questo il vero bene?”.
«Voltaire si ribella a questo concetto costrittivo, sente messi sotto accusa tutti i suoi grandi maestri del passato, Aristotile, Platone, Pitagora, e replica: “I filosofi non hanno insegnato alcuna religione, non è la loro filosofia che si tratta di combattere. Mai alcun filosofo si è detto ispirato da Dio, perché da quel momento avrebbe cessato di essere filosofo e avrebbe fatto il profeta”.
«Ed ecco, infine, un altro momento di questo duello a distanza in cui lo scontro di due intelletti, di due concezioni, di due modi di guardare oltre l’orizzonte terreno, assume il massimo dell’asprezza dialettica. Pascal, con quel suo stile fatto di ardori improvvisi e spinti quasi al limite del paradosso, aveva scritto: “Non scommettere che Dio esiste significa scommettere che non esiste. Cosa preferite allora? Valutiamo il guadagno e la perdita; optando per l’esistenza di Dio se vincete, vincete tutto; se perdete non perdete niente. Dunque scommettete che esiste, senza esitare”.
«Voltaire si ribella a questa esortazione; la sua replica sale ai toni più duri e scrive: “E’ una evidente falsità il dire “non scommettere che Dio esiste è lo stesso che scommettere che non esiste; infatti chi dubita e chiede di essere illuminato non scommette certamente né a favore né contro. D’altra parte questo argomento appare piuttosto indecente e puerile; questa idea di gioco, di perdita e di guadagno, con si conviene alla gravità dell’argomento; inoltre l’interesse che ho di credere in una cosa non è una prova dell’esistenza di questa cosa. Mi promettete il dominio del mondo se credo che avete ragione; spero allora, con tutto il cuore, che voi abbiate ragione; ma sinché non me lo avete provato non posso credervi. Si potrebbe dire a Pascal: cominciate col convincere la mia ragione”.
«Mi pare che a questo punto della mia riflessione – forzatamente basata su un gran numero di citazioni – il confronto fra i due grandi pensatori, fra un Pascal che è senza dubbio il sostenitore di una fede tutta basata sull’ispirazione, sulla rivelazione che ci raggiunge nel fondo dell’anima per vie trascendentali, sul principio assiomatico che la ragione è tanto al di sotto della fede quanto il finito è al di sotto dell’infinito, e un Voltaire che è il combattente indomito di una razionalità in grazia della quale l’uomo non è un piccolo essere insignificante in balia di forze sovrannaturali che ne decidono il destino per il presente e per il futuro, ma, al contrario, il soggetto della storia, capace per le sue qualità intellettuali di perseguire il progresso e la salvezza, possa considerarsi concluso.
«Uno scrittore italiano, Gianni Nicoletti, nella prefazione ad una delle tante versioni italiane delle opere di Voltaire, ha dato di lui un giudizio che vuol essere positivo e che a me pare, invece, riduttivo. Nicoletti scrive che “è falso dire che Voltaire tolse le illusioni al mondo; constatò semplicemente che illusioni non ce n’erano”, e aggiunge che “ancora oggi insegna a non prendere per arcobaleno una bolla di sapone: una saggezza limitata, ma sempre meglio di tante follie”.
«Io credo invece che Voltaire fece assai di più: sostituì alle false e pericolose illusioni, cui sempre l’umanità è esposta il concetto e l’invito alla speranza temprata dal rigore della ragione; senza precludergli la visione dell’infinto in cui un Grande Architetto vigila e disegna il meraviglioso ordine delle cose, Voltaire ha dato all’uomo anche degli insegnamenti e delle regole che rendano meno difficile e meno penoso il suo percorso terreno.
Conclusioni in chiave personale. «Desidero concludere aggiungendo alla biografia di Voltaire un’annotazione che assai di rado si trova negli innumerevoli libri che sono stati scritti sulla sua vita e sulle sue opere. Il 7aprile 1778, durante quel suo ultimo e trionfale ritorno a Parigi, poco più di un mese prima della morte improvvisa, il grande letterato e scrittore francese volle entrare ufficialmente nella Massoneria e fu iniziato nella Logga delle Nove Sorelle, di cui era Maestro Venerabile il famoso astronomo Lalande. Voltaire fece il suo ingresso nel Tempio guidato da Beniamino Franklin, allora ambasciatore a Parigi, si sottopose al rituale e fu alla fine ammesso a sedere fra le colonne.
«Vi confesso che leggendo questa annotazione e immaginando la scena di questo grande Patriarca dello spirito, di questo genio del pensiero, che già ottantaquattrenne, al tramonto della sua vita, entra in un Tempio che nelle sue linee essenziali è uguale a questo in cui noi ora sediamo, che riceve con umiltà quell’iniziazione che noi tutti abbiamo ricevuto, presta il giuramento che noi anche abbiamo prestato, e in grazia di tutto ciò diviene per noi, uomini comuni, un nostro fratello, io mi sono sentito preso da un vivo senso di emozione, di fierezza, di consapevole giubilo. Penso che anche voi proverete la stessa sensazione; ed è per questo momento di commozione e anche per quel grande principio di tolleranza che Voltaire ci ha trasmesso, che forse mi perdonerete – io spero – il tedio che vi ho inflitto con questa mia faticosa lettura; e che scuserete anche le imperfezioni di stile e di sostanza in cui posso essere caduto nell’affrontare una tematica fatta di così alti e complessi principi, assai distante da quella mia consueta pratica di giornalista commentatore delle piccole realtà quotidiane, modesto cronista dell’effimero. E con questa speranza vi ringrazio».