La pubblicazione del libro di Gershom Scholem, ventisette anni dopo la morte
dell’autore, ha acceso molte discussioni
di Maria De Falco Marotta
Maghen David, storia d’un simbolo, scritta sessant’anni fa da Gershom Scholem, teologo ebreo tedesco e pubblicata solo adesso, ventisette anni dopo la morte del suo autore, ha acceso ultimamente a Gerusalemme discussioni a non finire se sia o non sia il simbolo dell’ebraismo. La stella a sei punte per il mondo intero è l’emblema di Israele e nessuno mai dimenticherà che sventola sulle due fasce blu del Talled, che fu cucita sui cappotti dei deportati nei campi di concentramento, che spesso viene incenerita da chi la combatte(Iran e soci), anche se è vero che fu «Il congresso di Basilea che sancì una svolta e col sionismo Maghen David assunse da quel momento un ruolo diverso .Ma fu con l’Olocausto che la Stella prese un significato reale. E ricevette un senso spirituale, di pienezza, che fino a quel momento non aveva mai avuto»(Dal libro di Scholem).
Da tempo, Gershom Scholem, con Martin Buber e Franz Rosenzweig, sono i miei più amati filosofi ebrei. Non credo che sarei in grado di capire la loro condotta, senza aver letto i loro libri. E nessuno mi convincerà che i loro scritti oggi non sono apprezzati come si deve. In loro, c’è il “respiro di Dio”. Io lo sento ancora, perciò approfitto del can can suscitato a Gerusalemme per Maghen David, storia di un simbolo, per parlare proprio del suo autore: di :
Gershom Scholem
Egli nacque a Berlino nel 1897 da una famiglia della borghesia ebraica originaria della Slesia, una di quelle famiglie, la maggioranza allora in Germania, che avevano scelto la strada dell’assimilazione nella società tedesca. Era il più piccolo di quattro fratelli, ognuno dei quali aveva compiuto una scelta autonoma e indipendente rispetto alla propria condizione di ebreo: Gershom scelse la via della ricerca delle proprie radici e del sionismo. "Nei primi anni del Novecento", spiega lo stesso Scholem, "solo una minoranza della gioventù ebraica aderì a movimento sionista, la grande maggioranza era assimilazionista e scelse l’autoinganno — cioè: la totale germanizzazione degli ebrei. Un’altra esigua minoranza - che includeva mio fratello Werner - si unì al campo rivoluzionario." (Consigli in Rassegna mensile d’Israel, 1982:193).
Il fratello maggiore divenne un nazionalista di destra, un altro condusse la propria vita al di fuori di qualsiasi coinvolgimento politico, mentre il terzo, Werner, optò per la rivoluzione. La vita di Scholem è permeata da una continua ricerca di se stesso, della propria identità ebraica. Egli cominciò dal primo interesse per la storia che avvenne quando aveva tredici anni, in prossimità della maggiorità religiosa, quello fu il primo impulso all’ebraismo, paradossalmente non ricevuto dalla religione o dalla scuola ebraica. L’insegnante Moses Barol, bibliotecario nell’Istituto per la scienza dell’ebraismo, fu il primo a mostrargli i tre grossi tomi dell’edizione popolare della storia degli ebrei di Heinrich Graetz, incontestabilmente una delle principali opere della storiografia ebraica dalla cui lettura crebbe in lui il desiderio di imparare l’ebraico e, contemporaneamente alla lettura di testi ebraici antichi cominciò nel 1911 a leggere letteratura sionistica tra cui Teodor Herzl, Max Nordau e Nathan Birnbaum. Fra il 1912 e il 1917, egli aderì al circolo "Jung Juda", in cui confluivano, all’insegna della presa di coscienza sempre più approfondita del proprio ebraismo, sia i rampolli delle famiglie assimilate, sia i giovani originari dell’Europa orientale, discendenti dagli Ost Juden che contribuirono non poco alla definizione dell’identità ebraica dell’epoca. Essi erano depositari di un ebraismo rimasto integro, in cui l’identità etnica e quella ebraica erano ancora fuse insieme, come era stato nell’Europa occidentale, sin dai tempi dell’illuminismo ebraico che aveva aperto la via all’assimilazione e al cambiamento dell’identità ebraica, che, da appartenenza a una nazione, con lingua, cultura e tradizioni proprie, era diventata semplice adesione a una confessione. Le sedute erano rivolte a parlare di libri di interesse ebraico, oppure alla lettura di poesie dei grandi narratori ebrei orientali, nell’originale jiddish o in traduzione tedesca, e spesso si svolgevano in un caffè della stazione, dove lo studioso incontrò per la prima volta, Walter Benjamin, che fu per lui uno dei fondamentali punti di riferimento nella vita: i due si confrontavano in quel mondo in crisi, che li ha sempre più uniti nella loro intesa spirituale , testimoniata dalla storia. Sholem è autore di una biografia di Benjamin, pubblicata nel 1975, Walter Benjamin, Storia di un’amicizia, un’opera di alto valore letterario. Nonostante il contrasto con la famiglia, divenne uno dei membri più attivi dei movimenti giovanili sionisti ma contemporaneamente scelse la via dell’approfondimento del proprio ebraismo: nel 1913 frequentò lezioni di Talmud, sebbene prima della prima guerra mondiale la ricca comunità ebraica di Berlino si rifiutasse di permetterne l’insegnamento. L’emozione più grande nella vita di Scholem, come ricorda lui stesso, fu quando imparò a leggere la prima pagina del Talmud nell’originale e, più tardi, sentì la spiegazione dei primi versetti della Genesi data da Rashi, il più grande di tutti i talmudisti ebrei. Alla fine del 1913 egli si aggregò ad una nuova associazione giovanile, "Agudath Israel"; fondata nel 1911, strettamente ortodossa in concorrenza con il sionismo. La tesi del suo programma - "assolvere ai compiti di tutta la comunità ebraica nello spirito della Torah", mettendo in primo piano la Kabbalà e il chassidismo attraverso Martin Buber che diffuse con la sua rivista Der Jude e con il filosofo Franz Rosenzweig che con la sua Stella della redenzione(commovente e affascinante per i collegamenti a Cristo) diede una singolare ed interessante visione della teologia ebraica entusiasmando i giovani sionisti dell’epoca. In Scholem si alternavano all’adesione sionistica lo studio delle origini ebraiche, una complementarità tra i due interessi che risiedeva in un'unica passione, la ricerca della propria identità ebraica. Sion era il suo simbolo, che collegava la sua origine e il suo scopo utopico in un senso piuttosto religioso che geografico. Per lui esisteva una qualche prospettiva di un rinnovamento essenziale in cui l’ebraismo realizzasse il suo intrinseco potenziale, solo là dove l’ebreo avesse incontrato se stesso, il suo popolo e le sue radici. "C’era qualcosa di atmosferico, che penetrava nell’ambiente; qualcosa di cosciente, in cui si intrecciavano dialetticamente il desiderio di rinunciare a se stessi e al tempo stesso quello della dignità umana e fedeltà a se stessi, c’era qualcosa di una rottura cosciente con la tradizione ebraica di cui erano ancora sparsi in giro, i pezzi più diversi e spesso singolari" (Scholem, 1988:25).
In quel periodo Martin Buber con la sua storia della religione come esperienza Erlebniz e amplificazione dell’interiorità, con le sue disquisizioni sullo spirito dell’Oriente, il suo pensiero dialogico dell’Io-Tu, con il sionismo appassionato affascinava l’intera gioventù sionista riscuotendo una vastissima eco non solo a Berlino, ma anche in Francia e in Italia. Buber avvicinò Scholem alla "casa del popolo ebraico" creata da giovani berlinesi che nutrivano un forte interesse ebraico e sociale; essi erano sionisti che - sotto l’influsso delle idee dei populisti russi convinti della necessità di "andare al popolo" - volevano intraprendere il loro lavoro, da cui si ripromettevano reciproco aiuto e alimento. Quell’adesione non durò a lungo, per Scholem, a causa di contrasti con il leader Siegfried Lehmann, che si compiaceva di interpretare le interpretazioni buberiane del chassidismo senza sapere nulla della storia dell’ebraismo. Buber in un primo momento impressionò profondamente Scholem, ma in seguito ne rimase deluso in parecchie occasioni. I contrasti, infatti, con Martin Buber lo hanno visto contro per certi aspetti già nel 1915, quando uscì sulla "Judische Rundschau" un articolo intitolato Noi e la guerra, che sosteneva un perfetto "buberismo" e culminava con la frase: "Avvenne così che noi partissimo per la guerra, non già sebbene noi fossimo ebrei, ma perché eravamo sionisti" (Scholem, 1988:80).
Scholem rispose protestando violentemente contro la rivista che esaltava la guerra, che i sionisti per lui non dovevano incitare. Nonostante le critiche, Sholem descrive Buber come il primo pensatore ebreo che abbia visto nel misticismo una forza basilare dell’ebraismo e una tendenza in esso al rinnovamento. Contemporaneamente allo studio della Torà viveva in Scholem un grande interesse per la matematica specialmente per la teoria dei numeri, l’algebra e la teoria delle funzioni e questo, come disse lui, creò un conflitto tra le sue due anime, quella matematica e quella ebraica. Ma la direzione della sua vita era già determinata inequivocabilmente, poiché "mi ero proposto di, legare la mia esistenza alla costruzione di una nuova esistenza ebraica nel paese d’Israele" (Scholem, 1988:66).
Il sionismo si incarnava nel suo interesse per la Kabbalà, il misticismo ebraico, che aveva le radici nella sua anima, nel grande bisogno di comprendere il mistero della storia ebraica, attraverso la lettura di Graetz sulla "Storia degli ebrei", la lotta del popolo ebraico rivolta a mantenere viva, pur tra le avversità, la purezza della fede monoteista e il suo slancio etico che l’autore presentò in termini vivi e drammatici. La Kabbalà rappresentava per Scholem l’elemento vivificante dell’ebraismo, il quid che gli aveva consentito di sopravvivere spiritualmente nonostante le condizioni artificiose della vita della diaspora, dando una propria risposta ai problemi via via posti dalla storia, sulla scia delle istanze di adeguamento ai parametri tedeschi, che nella sostanza più intima rispondevano ad uno spirito protestante, che doveva "depurare" l’ebraismo da tutte le sue espressioni peculiari. Da qui prendeva origine l’idea del "monoteismo etico" (Scholem, 1998:12) come caratteristica essenziale per la definizione della religione ebraica, una volta che le aspirazioni alla dimensione nazionale si erano rilevate illusorie o piuttosto, come avrebbe notato Scholem, erano state censurate in nome dell’adeguamento al concetto germanico di nazionalità, secondo il quale era impossibile ammettere nello stato tedesco gli appartenenti a una nazione autonoma, come era stata quella ebraica prima dell’emancipazione.
Il sionismo così diventò il principale ostacolo all’integrazione in seno al mondo tedesco e, come tale dovette essere combattuto tenacemente dalla borghesia ebraica. Da qui la polemica contro la Wissenschaft des Judentums, di cui Scholem faceva parte, che dal canto suo aveva contribuito in misura notevole sia al formarsi della nuova identità ebraico- tedesca, sia alla sua fossilizzazione anacronistica, che egli ha più volte messo in luce con accenti fortemente polemici. Riconsiderare le origini dell’ebraismo attraverso i documenti letterari e storici di tutta la diaspora adattandoli in una chiave moderna, ai problemi dell’assimilazione, come tentativo illusorio di adeguarsi ai parametri culturali, che comunque, non erano adatti a comprendere la specificità ebraica, era una vera e propria "miopia culturale" (Scholem, 1998:11).
Egli descriveva questo fenomeno brutale come "Autoinganno"; l’incapacità di giudicare tutto ciò che concernesse se stessi, che caratterizzava la maggior parte degli ebrei, fu uno degli aspetti più importanti e tristi dei rapporti fra i tedeschi e gli ebrei. Scholem viveva questo conflitto culturale emerso dalle due realtà, quella ebraica e quella tedesca spesso in contrasto, come un "dramma" (Turner, 1986:49). La sovrapposizione, l’inter- referenzialità tra le due culture generava un conflitto determinato dalla volontà di allontanare un mondo per recuperarne un altro. Egli riuscì a superare la rottura emersa dal rifiuto di porre le proprie armi simboliche, in mani tedesche tra cui, sistemi rituali, sempre più invasive della vita ebraica, perché egli intravedeva proprio in questo "dramma" l’origine di una trasformazione generata dal potere della comunicazione mediante simboli recuperati attraverso lo studio della Kabbalà. Quello che i padri fondatori della Wissenschaft consideravano irrilevante, rispetto alla concezione dell’ebraismo che si proponevano di valorizzare, diventa centrale per Scholem: egli si poneva all’opera con maggiore consapevolezza della complessità implicita nel concetto di obiettività scientifica che non è possibile isolare artificiosamente dall’elemento ideologico, sotteso a ogni operazione culturale del tipo di quella messa in atto in qualsiasi rilettura dell’ebraismo. La conoscenza di una verità non era quella dei suoi predecessori che vedevano nell’ebraismo un avvicinamento a una "decorosa sepoltura", come disse Getthold Weil ad una conferenza tenuta all’istituto Leo Baeck di Londra, Scholem, seppure fedele alla Wissenschaft ma per certi aspetti critico, era animato da uno spirito di ricerca che prendeva le mosse dal significato che assumeva per lui la dialettica, come dinamica vitale che si rileva all’occhio attento a cogliere il valore dei particolari, attraverso "la Kabbalà come corpus simbolicum che si traduce in forme temporali che celano attraverso apparenze nebulose e transeunti un nucleo di verità" (Consigli in Rassegna mensile d’Israel, 1982:2069).
Egli aveva cominciato a scandagliare le fonti del patrimonio ebraico, giungendo alla mistica, l’esame spassionato delle fonti condotto con il massimo rigore filologico, l’ideale di ricerca che ha perseguito in tutta la sua lunga carriera da studioso, lo muoveva la convinzione che, riportare i fatti alla luce nella loro obiettività fosse il primo passo per giungere alla verità. L’ansia che emerge dalla rottura del passato si fa continua con la prospettiva del futuro. Non a caso ricercare un significato profondo nelle parole della Torà, servendosi della numerologia, racchiude il simbolo espresso da un "ponte di passaggio" tra passato e futuro, per arrivare alla conoscenza e chiarezza di un futuro che diventa identità.
L’esplicita attività politica forte nella sua convinzione lo ha reso più sensibile di fronte all’obiettivo della sua vita, quello finalmente di giungere in Israele, realizzato nel 1923, dove trovò a Gerusalemme un posto di lavoro come professore di matematica all’Istituto di formazione degli insegnanti. Diventò un forte sostenitore del movimento di sinistra dei pionieri halutzim e fece parte del Brit Shalom, l’organizzazione che si batté fin dagli anni venti per il dialogo tra arabi ed ebrei. All’inizio di quegli anni, Israele rappresentava un culmine del movimento sionistico, lì vivevano meno di centomila ebrei eppure c’era una grande spinta, uno slancio di questa gioventù che si era data alla causa del sionismo, possedendo una coscienza storica nella quale era concentrata la dialettica di continuità e di rivolta. Egli spiega che nessuno avrebbe potuto rinnegare la storia del popolo d’Israele, ma la patria era una realtà concreta per fissare le proprie radici. Le sue si basavano sulla realizzazione di un progetto per la fondazione dell’università per gli Studi ebraici che ebbe luogo alla fine del 1924, con a seguito l’apertura nel 1925 dell’università ebraica. Si cercavano scienziati che potessero abbellire una facoltà intesa all’indagine di tutti gli aspetti dell’ebraismo e della sua storia: Scholem fu scelto per insegnare la Kabbalà. Da qui nascono i primi studi dell’autore: Bibliliographia Kabbalistica nel 1927 e Capitoli nella storia della letteratura cabbalistica nel 1930. Dopo la guerra appare nel 1949 Le grandi correnti della mistica ebraica nel 1957 Shabbetai Zevì, nel 1960 La Kabbalà e il suo simbolismo, Judaica nel 1963. Questi lavori consistono nell’aver attribuito un autonomo valore storico alla Kabbalà, liberandola dal pesante giudizio del positivismo ebraico ottocentesco, che la considerava come un’ingombrante farragine di stranezze e di aberrazioni. Egli dovette affrontare l’ostilità dei circoli tradizionali e dell’ortodossia rabbinica per riportare chiarezza scientifica nelle paternità e nelle datazioni, sconfessando numerose attribuzioni sancite da una consuetudine secolare e abbassando molte date.
«Maghen David, storia d’un simbolo» è uno studio che Scholem aveva compiuto con un minuzioso esame sulle decorazioni di molti edifici asiatici dove al simbolo, conosciuto come il Sigillo di Re Salomone, venivano attribuiti poteri magici, di guarigione e di cacciata delle sventure. Testimonianze della Stella si trovano in edifici di tremila anni fa, a volte affiancate al simbolo indiano della svastica. Secondo Scholem, il sigillo entrò per la prima volta nella storia del misticismo ebraico durante il VI secolo d.C., su un talismano che lo racchiudeva fra due leoni, ma per molto tempo fu raffigurato ora a sei, ora a cinque punte. Lo Zoroastrismo e altre religioni lo rappresentavano, considerandolo utile anche per combattere malattie sconosciute. Fu solo nell’Ottocento, nel ghetto di Praga, che il simbolo cominciò a essere chiamato Maghen David e a diventare comune sulle copertine dei libri, nelle sinagoghe, sulle lapidi. Finché,nell’ anno 1897, il primo congresso sionista di Basilea non decise di farne una bandiera.
Oggi Maghen David è una stella che suscita polemiche non solo nel mondo arabo: non vi si riconoscono alcune frange d’ultraortodossi, per esempio, che non ne tollerano proprio i legami con la tradizione dell’occultismo. Ma non è accettata nemmeno da diversi haredi, religiosi estremi, che vi vedono il simbolo del sionismo e d’uno Stato che non considerano necessari, preferendo restare legati all’antico emblema della Menorah, il candelabro a sette bracci. I giornali e i blog sono bersagliati di messaggi, il dibattito è aperto: «Certo, si tratta d’un simbolo pagano. Tanto che una volta stava pure sulla bandiera del Marocco» (Russel, Tel Aviv); «l’ho visto anche in molte chiese cattoliche d’Europa» (ghostq); «e adesso preparatevi all’odio cieco e ai rifiuti» (Chaim); «l’autore evidentemente non ha fatto ricerche sufficienti: Maghen David compare fin dai tempi di Adamo ed Eva» (Bear, Zefat); «non sarà un simbolo ebraico, neanche la Menorah lo è, ma che cambia? È un simbolo della storia ebraica» (Zionist Forever)… Infatti chi scinde gli ebrei dalla loro bandiera dove troneggia la stella di Davide?
Forse è un po’ troppo, ma scriviamolo lo stesso:
Lo Scudo di David o anche sigillo di Salomone, è la stella a sei punte, comunemente chiamata Stella di David.
Insieme con la Menorah rappresenta la civiltà e la religiosità ebraica.
Diventata simbolo del sionismo fin dal primo congresso di Basilea (1898), è presente nella bandiera dello Stato di Israele (insieme alle fasce blu del Talled) a partire dal 1948, quando la bandiera sionista diviene quella ufficiale dello Stato di Israele.
La "stella a sei punte" è anche un simbolo molto diffuso nella cabala e nell'occultismo più in generale. La forma della stella è un esempio dell'esagramma, un simbolo significativo anche per altre religioni. L'esagramma è da datarsi anteriormente all'utilizzo degli ebrei. Fuori dal sistema giudaico viene utilizzato prevalentemente nell'occultismo.
L'esagramma è un antico simbolo Mandala trovato su antichi templi Indiani costruiti migliaia di anni fa. Simboleggiava il Nara-Narayana, o il perfetto stato meditativo dell'equilibrio tra l'Uomo e Dio, e, se mantenuto, avrebbe portato nel "Moksha," o "Nirvāṇa" (liberazione dai limiti del mondo terreno e le sue trappole materialistiche). Alcuni ricercatori hanno anche teorizzato che la Stella di David rappresenti la situazione astrale al momento della nascita di David o della sua incoronazione come re. La stella di Davide è altresì conosciuta come la Stella del re nei circoli astrologici e fu pure un simbolo astrologico nello Zoroastrismo.
In antichi papiri, i pentagrammi, insieme a stelle ed altri simboli, era spesso reperibile su amuleti con il nome ebraico di Dio, e veniva usato per proteggere dalla febbre e da altre malattie. Quindi, con tutta probabilità non fu il sincretismo delle influenze ellenistica, ebraica e copta a originare il simbolo. E possibile che sia stata la Kabbalah a far derivare il simbolo dai Templari. La "Pratica" della Kabbalah fa uso di questo simbolo ordinando le dieci Sephiroth, sul simbolo e mettendolo sugli amuleti. Comunque, il simbolo non si trova sui classici testi kabbalistici come lo Zohar, gli scritti del rabbino Isaac Luria e altri similari. Pertanto si può dire che questo utilizzo nel diagramma sefirotico non è nulla più di una reinterpretazione di simboli magici preesistenti.
Un'etimologia popolare sarebbe quella secondo cui la Stella di David venne letteralmente tratta dallo scudo del giovane guerriero Davide (che poi sarebbe diventato il re David). Per risparmiare metallo, lo scudo sarebbe stato fatto con un supporto metallico di due triangoli incrociati con una copertura in pelle. Leggende ebraiche fanno collegare il simbolo al Sigillo di Salomone, il magico anello con sigillo usato dal re Salomone per controllare i demoni e gli spiriti. Le leggende ebraiche collegano il simbolo anche ad uno scudo magico teoricamente posseduto dal re Davide che lo avrebbe protetto dai nemici.
Gli studiosi hanno proposto anche che possa essere una reliquia delle pratiche religiose dell'Antico Egitto, adottato dagli israeliti che avevano a che fare con l'occultismo e il sincretismo non prima del periodo del re Salomone. La prima citazione della letteratura ebraica dello Scudo di Davide è l'Eshkol ha-Kofer del Karaita Giuda Hadassi (metà del XII secolo EV) ed afferma nel capitolo 242: «Sette nomi di angeli precedono la mezuzah: Michele, Gabriele, ecc. ...
Tetragramma li protegge tutti! E anche il simbolo chiamato 'Scudo di David' è posto a lato del nome di ogni angelo.»
Era quindi anche questa volta un simbolo su di un amuleto. Un manoscritto del Tanakh datato 1307 e appartenuto al rabbino Giuseppe bar Yehuda ben Marvas di Toledo, in Spagna, venne decorato con una Stella di David. Nelle sinagoghe, forse, prese il posto della mezuzah, e il nome "stella di Davide" potrebbe essergli stato dato in virtù dei suoi presunti poteri protettivi. L'esagramma potrebbe essere stato utilizzato all'inizio anche come ornamento delle sinagoghe, com'è successo, per esempio, anche nelle cattedrali di Brandeburgo e Stendal, sul Marktkirche ad Hannover e sul sagrato del duomo di Vigevano. Un pentagramma in questa forma è stato ritrovato anche sull'antica sinagoga di Tell Hum.
Scudo con le stelle
Nel 1354, il Re di Boemia, Carlo IV prescrisse per gli ebrei di Praga una bandiera rossa con sia lo scudo di Davide che il sigillo di Salomone, mentre la bandiera rossa con la quale gli israeliti incontrarono il Re Mattia di Ungheria nel XV secolo aveva due pentagrammi con due stelle d'oro (Schwandtner, Scriptores Rerum Hungaricarum, ii. 148). Il pentagramma, perciò, era evidentemente in uso anche tra gli Ebrei. Si può vedere in un manoscritto già dall'anno 1073 . Nel primo libro di preghiere in ebraico, stampato a Praga nel 1512, un grande Scudo di David appariva sulla copertina. Nel colofone del libro venne scritto: «Ogni uomo sotto la sua bandiera concorda con la casa dei suoi padri... e merita di conferire un dono benigno su ognuno che porta lo Scudo di Davide». Nel 1592, a Mordechai Maizel venne dato il permesso di esporre «una bandiera del re David simile a quella della Sinagoga Principale» nella sua sinagoga a Praga. Nel 1648 ai giudei di Praga venne di nuovo dato il permesso di esporre una bandiera come ricompensa per aver partecipato in difendere la città contro gli Svedesi. Su uno sfondo rosso compariva uno Scudo di David in giallo al centro del quale stava una stella svedese. Successivamente, la Stella di David può essere trovata sulle lapidi degli ebrei religiosi fin da centinaia di anni fa in Europa, ed è universalmente accettata come simbolo del popolo ebraico. A conseguenza dell'emancipazione giudea dopo la Rivoluzione francese, le comunità ebraiche scelsero la Stella di David per rappresentarsi. Nella contemporaneità, diverse sinagoghe degli ortodossi moderni, e anche numerose sinagoghe di altri movimenti ebrei, espongono comunque la bandiera di Israele con la Stella di David in evidenza di fronte alle sinagoghe e vicino all'arca contenente i rotoli della Torah.
Vi risparmio, per stavolta, l’uso della stella di David nelle altre religioni. Non svenite, per favore!
Maria De Falco Marotta
Da tempo, Gershom Scholem, con Martin Buber e Franz Rosenzweig, sono i miei più amati filosofi ebrei. Non credo che sarei in grado di capire la loro condotta, senza aver letto i loro libri. E nessuno mi convincerà che i loro scritti oggi non sono apprezzati come si deve. In loro, c’è il “respiro di Dio”. Io lo sento ancora, perciò approfitto del can can suscitato a Gerusalemme per Maghen David, storia di un simbolo, per parlare proprio del suo autore: di :
Gershom Scholem
Egli nacque a Berlino nel 1897 da una famiglia della borghesia ebraica originaria della Slesia, una di quelle famiglie, la maggioranza allora in Germania, che avevano scelto la strada dell’assimilazione nella società tedesca. Era il più piccolo di quattro fratelli, ognuno dei quali aveva compiuto una scelta autonoma e indipendente rispetto alla propria condizione di ebreo: Gershom scelse la via della ricerca delle proprie radici e del sionismo. "Nei primi anni del Novecento", spiega lo stesso Scholem, "solo una minoranza della gioventù ebraica aderì a movimento sionista, la grande maggioranza era assimilazionista e scelse l’autoinganno — cioè: la totale germanizzazione degli ebrei. Un’altra esigua minoranza - che includeva mio fratello Werner - si unì al campo rivoluzionario." (Consigli in Rassegna mensile d’Israel, 1982:193).
Il fratello maggiore divenne un nazionalista di destra, un altro condusse la propria vita al di fuori di qualsiasi coinvolgimento politico, mentre il terzo, Werner, optò per la rivoluzione. La vita di Scholem è permeata da una continua ricerca di se stesso, della propria identità ebraica. Egli cominciò dal primo interesse per la storia che avvenne quando aveva tredici anni, in prossimità della maggiorità religiosa, quello fu il primo impulso all’ebraismo, paradossalmente non ricevuto dalla religione o dalla scuola ebraica. L’insegnante Moses Barol, bibliotecario nell’Istituto per la scienza dell’ebraismo, fu il primo a mostrargli i tre grossi tomi dell’edizione popolare della storia degli ebrei di Heinrich Graetz, incontestabilmente una delle principali opere della storiografia ebraica dalla cui lettura crebbe in lui il desiderio di imparare l’ebraico e, contemporaneamente alla lettura di testi ebraici antichi cominciò nel 1911 a leggere letteratura sionistica tra cui Teodor Herzl, Max Nordau e Nathan Birnbaum. Fra il 1912 e il 1917, egli aderì al circolo "Jung Juda", in cui confluivano, all’insegna della presa di coscienza sempre più approfondita del proprio ebraismo, sia i rampolli delle famiglie assimilate, sia i giovani originari dell’Europa orientale, discendenti dagli Ost Juden che contribuirono non poco alla definizione dell’identità ebraica dell’epoca. Essi erano depositari di un ebraismo rimasto integro, in cui l’identità etnica e quella ebraica erano ancora fuse insieme, come era stato nell’Europa occidentale, sin dai tempi dell’illuminismo ebraico che aveva aperto la via all’assimilazione e al cambiamento dell’identità ebraica, che, da appartenenza a una nazione, con lingua, cultura e tradizioni proprie, era diventata semplice adesione a una confessione. Le sedute erano rivolte a parlare di libri di interesse ebraico, oppure alla lettura di poesie dei grandi narratori ebrei orientali, nell’originale jiddish o in traduzione tedesca, e spesso si svolgevano in un caffè della stazione, dove lo studioso incontrò per la prima volta, Walter Benjamin, che fu per lui uno dei fondamentali punti di riferimento nella vita: i due si confrontavano in quel mondo in crisi, che li ha sempre più uniti nella loro intesa spirituale , testimoniata dalla storia. Sholem è autore di una biografia di Benjamin, pubblicata nel 1975, Walter Benjamin, Storia di un’amicizia, un’opera di alto valore letterario. Nonostante il contrasto con la famiglia, divenne uno dei membri più attivi dei movimenti giovanili sionisti ma contemporaneamente scelse la via dell’approfondimento del proprio ebraismo: nel 1913 frequentò lezioni di Talmud, sebbene prima della prima guerra mondiale la ricca comunità ebraica di Berlino si rifiutasse di permetterne l’insegnamento. L’emozione più grande nella vita di Scholem, come ricorda lui stesso, fu quando imparò a leggere la prima pagina del Talmud nell’originale e, più tardi, sentì la spiegazione dei primi versetti della Genesi data da Rashi, il più grande di tutti i talmudisti ebrei. Alla fine del 1913 egli si aggregò ad una nuova associazione giovanile, "Agudath Israel"; fondata nel 1911, strettamente ortodossa in concorrenza con il sionismo. La tesi del suo programma - "assolvere ai compiti di tutta la comunità ebraica nello spirito della Torah", mettendo in primo piano la Kabbalà e il chassidismo attraverso Martin Buber che diffuse con la sua rivista Der Jude e con il filosofo Franz Rosenzweig che con la sua Stella della redenzione(commovente e affascinante per i collegamenti a Cristo) diede una singolare ed interessante visione della teologia ebraica entusiasmando i giovani sionisti dell’epoca. In Scholem si alternavano all’adesione sionistica lo studio delle origini ebraiche, una complementarità tra i due interessi che risiedeva in un'unica passione, la ricerca della propria identità ebraica. Sion era il suo simbolo, che collegava la sua origine e il suo scopo utopico in un senso piuttosto religioso che geografico. Per lui esisteva una qualche prospettiva di un rinnovamento essenziale in cui l’ebraismo realizzasse il suo intrinseco potenziale, solo là dove l’ebreo avesse incontrato se stesso, il suo popolo e le sue radici. "C’era qualcosa di atmosferico, che penetrava nell’ambiente; qualcosa di cosciente, in cui si intrecciavano dialetticamente il desiderio di rinunciare a se stessi e al tempo stesso quello della dignità umana e fedeltà a se stessi, c’era qualcosa di una rottura cosciente con la tradizione ebraica di cui erano ancora sparsi in giro, i pezzi più diversi e spesso singolari" (Scholem, 1988:25).
In quel periodo Martin Buber con la sua storia della religione come esperienza Erlebniz e amplificazione dell’interiorità, con le sue disquisizioni sullo spirito dell’Oriente, il suo pensiero dialogico dell’Io-Tu, con il sionismo appassionato affascinava l’intera gioventù sionista riscuotendo una vastissima eco non solo a Berlino, ma anche in Francia e in Italia. Buber avvicinò Scholem alla "casa del popolo ebraico" creata da giovani berlinesi che nutrivano un forte interesse ebraico e sociale; essi erano sionisti che - sotto l’influsso delle idee dei populisti russi convinti della necessità di "andare al popolo" - volevano intraprendere il loro lavoro, da cui si ripromettevano reciproco aiuto e alimento. Quell’adesione non durò a lungo, per Scholem, a causa di contrasti con il leader Siegfried Lehmann, che si compiaceva di interpretare le interpretazioni buberiane del chassidismo senza sapere nulla della storia dell’ebraismo. Buber in un primo momento impressionò profondamente Scholem, ma in seguito ne rimase deluso in parecchie occasioni. I contrasti, infatti, con Martin Buber lo hanno visto contro per certi aspetti già nel 1915, quando uscì sulla "Judische Rundschau" un articolo intitolato Noi e la guerra, che sosteneva un perfetto "buberismo" e culminava con la frase: "Avvenne così che noi partissimo per la guerra, non già sebbene noi fossimo ebrei, ma perché eravamo sionisti" (Scholem, 1988:80).
Scholem rispose protestando violentemente contro la rivista che esaltava la guerra, che i sionisti per lui non dovevano incitare. Nonostante le critiche, Sholem descrive Buber come il primo pensatore ebreo che abbia visto nel misticismo una forza basilare dell’ebraismo e una tendenza in esso al rinnovamento. Contemporaneamente allo studio della Torà viveva in Scholem un grande interesse per la matematica specialmente per la teoria dei numeri, l’algebra e la teoria delle funzioni e questo, come disse lui, creò un conflitto tra le sue due anime, quella matematica e quella ebraica. Ma la direzione della sua vita era già determinata inequivocabilmente, poiché "mi ero proposto di, legare la mia esistenza alla costruzione di una nuova esistenza ebraica nel paese d’Israele" (Scholem, 1988:66).
Il sionismo si incarnava nel suo interesse per la Kabbalà, il misticismo ebraico, che aveva le radici nella sua anima, nel grande bisogno di comprendere il mistero della storia ebraica, attraverso la lettura di Graetz sulla "Storia degli ebrei", la lotta del popolo ebraico rivolta a mantenere viva, pur tra le avversità, la purezza della fede monoteista e il suo slancio etico che l’autore presentò in termini vivi e drammatici. La Kabbalà rappresentava per Scholem l’elemento vivificante dell’ebraismo, il quid che gli aveva consentito di sopravvivere spiritualmente nonostante le condizioni artificiose della vita della diaspora, dando una propria risposta ai problemi via via posti dalla storia, sulla scia delle istanze di adeguamento ai parametri tedeschi, che nella sostanza più intima rispondevano ad uno spirito protestante, che doveva "depurare" l’ebraismo da tutte le sue espressioni peculiari. Da qui prendeva origine l’idea del "monoteismo etico" (Scholem, 1998:12) come caratteristica essenziale per la definizione della religione ebraica, una volta che le aspirazioni alla dimensione nazionale si erano rilevate illusorie o piuttosto, come avrebbe notato Scholem, erano state censurate in nome dell’adeguamento al concetto germanico di nazionalità, secondo il quale era impossibile ammettere nello stato tedesco gli appartenenti a una nazione autonoma, come era stata quella ebraica prima dell’emancipazione.
Il sionismo così diventò il principale ostacolo all’integrazione in seno al mondo tedesco e, come tale dovette essere combattuto tenacemente dalla borghesia ebraica. Da qui la polemica contro la Wissenschaft des Judentums, di cui Scholem faceva parte, che dal canto suo aveva contribuito in misura notevole sia al formarsi della nuova identità ebraico- tedesca, sia alla sua fossilizzazione anacronistica, che egli ha più volte messo in luce con accenti fortemente polemici. Riconsiderare le origini dell’ebraismo attraverso i documenti letterari e storici di tutta la diaspora adattandoli in una chiave moderna, ai problemi dell’assimilazione, come tentativo illusorio di adeguarsi ai parametri culturali, che comunque, non erano adatti a comprendere la specificità ebraica, era una vera e propria "miopia culturale" (Scholem, 1998:11).
Egli descriveva questo fenomeno brutale come "Autoinganno"; l’incapacità di giudicare tutto ciò che concernesse se stessi, che caratterizzava la maggior parte degli ebrei, fu uno degli aspetti più importanti e tristi dei rapporti fra i tedeschi e gli ebrei. Scholem viveva questo conflitto culturale emerso dalle due realtà, quella ebraica e quella tedesca spesso in contrasto, come un "dramma" (Turner, 1986:49). La sovrapposizione, l’inter- referenzialità tra le due culture generava un conflitto determinato dalla volontà di allontanare un mondo per recuperarne un altro. Egli riuscì a superare la rottura emersa dal rifiuto di porre le proprie armi simboliche, in mani tedesche tra cui, sistemi rituali, sempre più invasive della vita ebraica, perché egli intravedeva proprio in questo "dramma" l’origine di una trasformazione generata dal potere della comunicazione mediante simboli recuperati attraverso lo studio della Kabbalà. Quello che i padri fondatori della Wissenschaft consideravano irrilevante, rispetto alla concezione dell’ebraismo che si proponevano di valorizzare, diventa centrale per Scholem: egli si poneva all’opera con maggiore consapevolezza della complessità implicita nel concetto di obiettività scientifica che non è possibile isolare artificiosamente dall’elemento ideologico, sotteso a ogni operazione culturale del tipo di quella messa in atto in qualsiasi rilettura dell’ebraismo. La conoscenza di una verità non era quella dei suoi predecessori che vedevano nell’ebraismo un avvicinamento a una "decorosa sepoltura", come disse Getthold Weil ad una conferenza tenuta all’istituto Leo Baeck di Londra, Scholem, seppure fedele alla Wissenschaft ma per certi aspetti critico, era animato da uno spirito di ricerca che prendeva le mosse dal significato che assumeva per lui la dialettica, come dinamica vitale che si rileva all’occhio attento a cogliere il valore dei particolari, attraverso "la Kabbalà come corpus simbolicum che si traduce in forme temporali che celano attraverso apparenze nebulose e transeunti un nucleo di verità" (Consigli in Rassegna mensile d’Israel, 1982:2069).
Egli aveva cominciato a scandagliare le fonti del patrimonio ebraico, giungendo alla mistica, l’esame spassionato delle fonti condotto con il massimo rigore filologico, l’ideale di ricerca che ha perseguito in tutta la sua lunga carriera da studioso, lo muoveva la convinzione che, riportare i fatti alla luce nella loro obiettività fosse il primo passo per giungere alla verità. L’ansia che emerge dalla rottura del passato si fa continua con la prospettiva del futuro. Non a caso ricercare un significato profondo nelle parole della Torà, servendosi della numerologia, racchiude il simbolo espresso da un "ponte di passaggio" tra passato e futuro, per arrivare alla conoscenza e chiarezza di un futuro che diventa identità.
L’esplicita attività politica forte nella sua convinzione lo ha reso più sensibile di fronte all’obiettivo della sua vita, quello finalmente di giungere in Israele, realizzato nel 1923, dove trovò a Gerusalemme un posto di lavoro come professore di matematica all’Istituto di formazione degli insegnanti. Diventò un forte sostenitore del movimento di sinistra dei pionieri halutzim e fece parte del Brit Shalom, l’organizzazione che si batté fin dagli anni venti per il dialogo tra arabi ed ebrei. All’inizio di quegli anni, Israele rappresentava un culmine del movimento sionistico, lì vivevano meno di centomila ebrei eppure c’era una grande spinta, uno slancio di questa gioventù che si era data alla causa del sionismo, possedendo una coscienza storica nella quale era concentrata la dialettica di continuità e di rivolta. Egli spiega che nessuno avrebbe potuto rinnegare la storia del popolo d’Israele, ma la patria era una realtà concreta per fissare le proprie radici. Le sue si basavano sulla realizzazione di un progetto per la fondazione dell’università per gli Studi ebraici che ebbe luogo alla fine del 1924, con a seguito l’apertura nel 1925 dell’università ebraica. Si cercavano scienziati che potessero abbellire una facoltà intesa all’indagine di tutti gli aspetti dell’ebraismo e della sua storia: Scholem fu scelto per insegnare la Kabbalà. Da qui nascono i primi studi dell’autore: Bibliliographia Kabbalistica nel 1927 e Capitoli nella storia della letteratura cabbalistica nel 1930. Dopo la guerra appare nel 1949 Le grandi correnti della mistica ebraica nel 1957 Shabbetai Zevì, nel 1960 La Kabbalà e il suo simbolismo, Judaica nel 1963. Questi lavori consistono nell’aver attribuito un autonomo valore storico alla Kabbalà, liberandola dal pesante giudizio del positivismo ebraico ottocentesco, che la considerava come un’ingombrante farragine di stranezze e di aberrazioni. Egli dovette affrontare l’ostilità dei circoli tradizionali e dell’ortodossia rabbinica per riportare chiarezza scientifica nelle paternità e nelle datazioni, sconfessando numerose attribuzioni sancite da una consuetudine secolare e abbassando molte date.
«Maghen David, storia d’un simbolo» è uno studio che Scholem aveva compiuto con un minuzioso esame sulle decorazioni di molti edifici asiatici dove al simbolo, conosciuto come il Sigillo di Re Salomone, venivano attribuiti poteri magici, di guarigione e di cacciata delle sventure. Testimonianze della Stella si trovano in edifici di tremila anni fa, a volte affiancate al simbolo indiano della svastica. Secondo Scholem, il sigillo entrò per la prima volta nella storia del misticismo ebraico durante il VI secolo d.C., su un talismano che lo racchiudeva fra due leoni, ma per molto tempo fu raffigurato ora a sei, ora a cinque punte. Lo Zoroastrismo e altre religioni lo rappresentavano, considerandolo utile anche per combattere malattie sconosciute. Fu solo nell’Ottocento, nel ghetto di Praga, che il simbolo cominciò a essere chiamato Maghen David e a diventare comune sulle copertine dei libri, nelle sinagoghe, sulle lapidi. Finché,nell’ anno 1897, il primo congresso sionista di Basilea non decise di farne una bandiera.
Oggi Maghen David è una stella che suscita polemiche non solo nel mondo arabo: non vi si riconoscono alcune frange d’ultraortodossi, per esempio, che non ne tollerano proprio i legami con la tradizione dell’occultismo. Ma non è accettata nemmeno da diversi haredi, religiosi estremi, che vi vedono il simbolo del sionismo e d’uno Stato che non considerano necessari, preferendo restare legati all’antico emblema della Menorah, il candelabro a sette bracci. I giornali e i blog sono bersagliati di messaggi, il dibattito è aperto: «Certo, si tratta d’un simbolo pagano. Tanto che una volta stava pure sulla bandiera del Marocco» (Russel, Tel Aviv); «l’ho visto anche in molte chiese cattoliche d’Europa» (ghostq); «e adesso preparatevi all’odio cieco e ai rifiuti» (Chaim); «l’autore evidentemente non ha fatto ricerche sufficienti: Maghen David compare fin dai tempi di Adamo ed Eva» (Bear, Zefat); «non sarà un simbolo ebraico, neanche la Menorah lo è, ma che cambia? È un simbolo della storia ebraica» (Zionist Forever)… Infatti chi scinde gli ebrei dalla loro bandiera dove troneggia la stella di Davide?
Forse è un po’ troppo, ma scriviamolo lo stesso:
Lo Scudo di David o anche sigillo di Salomone, è la stella a sei punte, comunemente chiamata Stella di David.
Insieme con la Menorah rappresenta la civiltà e la religiosità ebraica.
Diventata simbolo del sionismo fin dal primo congresso di Basilea (1898), è presente nella bandiera dello Stato di Israele (insieme alle fasce blu del Talled) a partire dal 1948, quando la bandiera sionista diviene quella ufficiale dello Stato di Israele.
La "stella a sei punte" è anche un simbolo molto diffuso nella cabala e nell'occultismo più in generale. La forma della stella è un esempio dell'esagramma, un simbolo significativo anche per altre religioni. L'esagramma è da datarsi anteriormente all'utilizzo degli ebrei. Fuori dal sistema giudaico viene utilizzato prevalentemente nell'occultismo.
L'esagramma è un antico simbolo Mandala trovato su antichi templi Indiani costruiti migliaia di anni fa. Simboleggiava il Nara-Narayana, o il perfetto stato meditativo dell'equilibrio tra l'Uomo e Dio, e, se mantenuto, avrebbe portato nel "Moksha," o "Nirvāṇa" (liberazione dai limiti del mondo terreno e le sue trappole materialistiche). Alcuni ricercatori hanno anche teorizzato che la Stella di David rappresenti la situazione astrale al momento della nascita di David o della sua incoronazione come re. La stella di Davide è altresì conosciuta come la Stella del re nei circoli astrologici e fu pure un simbolo astrologico nello Zoroastrismo.
In antichi papiri, i pentagrammi, insieme a stelle ed altri simboli, era spesso reperibile su amuleti con il nome ebraico di Dio, e veniva usato per proteggere dalla febbre e da altre malattie. Quindi, con tutta probabilità non fu il sincretismo delle influenze ellenistica, ebraica e copta a originare il simbolo. E possibile che sia stata la Kabbalah a far derivare il simbolo dai Templari. La "Pratica" della Kabbalah fa uso di questo simbolo ordinando le dieci Sephiroth, sul simbolo e mettendolo sugli amuleti. Comunque, il simbolo non si trova sui classici testi kabbalistici come lo Zohar, gli scritti del rabbino Isaac Luria e altri similari. Pertanto si può dire che questo utilizzo nel diagramma sefirotico non è nulla più di una reinterpretazione di simboli magici preesistenti.
Un'etimologia popolare sarebbe quella secondo cui la Stella di David venne letteralmente tratta dallo scudo del giovane guerriero Davide (che poi sarebbe diventato il re David). Per risparmiare metallo, lo scudo sarebbe stato fatto con un supporto metallico di due triangoli incrociati con una copertura in pelle. Leggende ebraiche fanno collegare il simbolo al Sigillo di Salomone, il magico anello con sigillo usato dal re Salomone per controllare i demoni e gli spiriti. Le leggende ebraiche collegano il simbolo anche ad uno scudo magico teoricamente posseduto dal re Davide che lo avrebbe protetto dai nemici.
Gli studiosi hanno proposto anche che possa essere una reliquia delle pratiche religiose dell'Antico Egitto, adottato dagli israeliti che avevano a che fare con l'occultismo e il sincretismo non prima del periodo del re Salomone. La prima citazione della letteratura ebraica dello Scudo di Davide è l'Eshkol ha-Kofer del Karaita Giuda Hadassi (metà del XII secolo EV) ed afferma nel capitolo 242: «Sette nomi di angeli precedono la mezuzah: Michele, Gabriele, ecc. ...
Tetragramma li protegge tutti! E anche il simbolo chiamato 'Scudo di David' è posto a lato del nome di ogni angelo.»
Era quindi anche questa volta un simbolo su di un amuleto. Un manoscritto del Tanakh datato 1307 e appartenuto al rabbino Giuseppe bar Yehuda ben Marvas di Toledo, in Spagna, venne decorato con una Stella di David. Nelle sinagoghe, forse, prese il posto della mezuzah, e il nome "stella di Davide" potrebbe essergli stato dato in virtù dei suoi presunti poteri protettivi. L'esagramma potrebbe essere stato utilizzato all'inizio anche come ornamento delle sinagoghe, com'è successo, per esempio, anche nelle cattedrali di Brandeburgo e Stendal, sul Marktkirche ad Hannover e sul sagrato del duomo di Vigevano. Un pentagramma in questa forma è stato ritrovato anche sull'antica sinagoga di Tell Hum.
Scudo con le stelle
Nel 1354, il Re di Boemia, Carlo IV prescrisse per gli ebrei di Praga una bandiera rossa con sia lo scudo di Davide che il sigillo di Salomone, mentre la bandiera rossa con la quale gli israeliti incontrarono il Re Mattia di Ungheria nel XV secolo aveva due pentagrammi con due stelle d'oro (Schwandtner, Scriptores Rerum Hungaricarum, ii. 148). Il pentagramma, perciò, era evidentemente in uso anche tra gli Ebrei. Si può vedere in un manoscritto già dall'anno 1073 . Nel primo libro di preghiere in ebraico, stampato a Praga nel 1512, un grande Scudo di David appariva sulla copertina. Nel colofone del libro venne scritto: «Ogni uomo sotto la sua bandiera concorda con la casa dei suoi padri... e merita di conferire un dono benigno su ognuno che porta lo Scudo di Davide». Nel 1592, a Mordechai Maizel venne dato il permesso di esporre «una bandiera del re David simile a quella della Sinagoga Principale» nella sua sinagoga a Praga. Nel 1648 ai giudei di Praga venne di nuovo dato il permesso di esporre una bandiera come ricompensa per aver partecipato in difendere la città contro gli Svedesi. Su uno sfondo rosso compariva uno Scudo di David in giallo al centro del quale stava una stella svedese. Successivamente, la Stella di David può essere trovata sulle lapidi degli ebrei religiosi fin da centinaia di anni fa in Europa, ed è universalmente accettata come simbolo del popolo ebraico. A conseguenza dell'emancipazione giudea dopo la Rivoluzione francese, le comunità ebraiche scelsero la Stella di David per rappresentarsi. Nella contemporaneità, diverse sinagoghe degli ortodossi moderni, e anche numerose sinagoghe di altri movimenti ebrei, espongono comunque la bandiera di Israele con la Stella di David in evidenza di fronte alle sinagoghe e vicino all'arca contenente i rotoli della Torah.
Vi risparmio, per stavolta, l’uso della stella di David nelle altre religioni. Non svenite, per favore!
Maria De Falco Marotta