di Paolo Galiano (http://www.simmetria.org/)
I manoscritti della Regola dei Poveri Cavalieri dell’Ordine del Tempio di Salomone che sono pervenuti fino a noi sono in totale nove, di cui sei in lingua latina, cioè la lingua originale nella quale essa venne redatta, e tre in francese (ne esisteva un quarto, il quale è però scomparso – Cerrini pag. 13), eseguite probabilmente sotto il Gran Maestro Roberto di Craon fra il 1135 e il 1139 (Demurger pag. 58, Molle pag. 17). Altre due copie sono in possesso di privati in Italia e non sono mai state pubblicate (Galiano pag. 10 nota 2).
Alcuni manoscritti latini furono collazionati nel 1903 dallo Schnürer (Galiano pag. 1) ma l’opera completa è stata effettuata in tempi più recenti dalla Cerrini, la quale ha anche pubblicato in seguito un’interessante esame critico dei singoli manoscritti considerati da un punto di vista storico, per il quale rimandiamo all’opera citata.
Quello che a noi maggiormente interessa per i motivi che più avanti spiegheremo è il manoscritto ora conservato presso la Biblioteque Nationale di Parigi, con l’indicazione lat. 15045, uno di quelli adoperati dallo Schnürer per il suo lavoro. E’ l’unico manoscritto di cui si conosca il nome del possessore: il monaco Goffredo dell’Abbazia di san Vittore di Parigi, personaggio noto nell’ambiente degli specialisti perché alcuni testi scritti di suo pugno sono giunti fino a noi, ma della cui vita abbiamo scarsa conoscenza, derivante per altro in gran parte dalle sue stesse opere.
Sappiamo che era contemporaneo di San Bernardo e di Abelardo (Gasparri 2 pag 57, da cui sono tratte le successive informazioni sulla vita di Goffredo), aveva studiato a Parigi alla scuola di Petit-Point e solo dopo aver insegnato per molti anni, non sappiamo dove, entrò nella celebre Abbazia di San Vittore, uno dei centri intellettuali della Francia del XII secolo. Fu perseguitato per motivi che non sappiamo, ma certamente legati alla sua personalità innovativa e audace, tanto da essere cacciato dall’Abbazia dal priore Gautier per esservi riammesso solo dopo molti anni con l’ufficio di armarius, cioè bibliotecario addetto anche alla correzione dei testi e alla direzione del canto dell’Ufficio (idem pag. 62); altri (si veda Gasparri 1 pag. 280) ritengono che egli fosse vice priore di San Vittore nel 1173. La data della sua morte dovrebbe collocarsi verso la fine del secolo (secondo Ouy nel 1194 – pag. 38), visto che egli non portò a termine l’elaborazione definitiva del suo lavoro più importante, il Microcosmus, la cui prima stesura dovrebbe risalire al 1185 (Ouy pag. 32).
Secondo una supposizione della Cerrini (pag. 47) il periodo di tempo nel quale Goffredo fu allontanato dall’Abbazia potrebbe averlo trascorso in una commenda del Tempio, ove avrebbe avuto la possibilità di farsi trascrivere il testo della Regola, si suppone tra il 1160 e il 1180 (Cerrini pag. 182).
Negli Statuti o Retrais al paragrafo 326 si fa espresso divieto di “portare con sé gli Statuti o la Regola senza aver ricevuto il permesso del convento, infatti il convento prescrive che non li abbiano con sé, poiché è accaduto che (siano stati) letti e rivelati ai laici, esponendo l’Ordine a gravi rischi” (Molle pag. 124): ciò fa quindi pensare che sia stato fatto un particolare onore a Goffredo dandogli il permesso di avere una copia personale della Regola, la quale fu scritta da un amanuense e non copiata da lui personalmente, la sua calligrafia infatti è nota agli studiosi di manoscritti medievali.
Questa copia della Regola, come era in uso all’epoca, fa parte di un codice più ampio comprendente (Cerrini pag. 182) anche il De laude di San Bernardo, due opere di Anselmo di Canterbury, una raccolta di salmi ed inni e la Sequentia Sancti Vittori dello stesso Goffredo, questa scritta di suo pugno e comprendente anche le notazioni musicali (Gasparri 2 pag. 58), come di suo pugno sono altri tre inni conservati nel codice Mazzarino 1002 (idem pag. 61). Tra gli inni riportati nel codice contenente la Regola ve ne è uno particolarmente interessante, sul quale ritorneremo dopo aver approfondito alcuni aspetti delle attività di Goffredo.
La musica sacra nella sua forma di “sequenza” subisce nell’XI-XII secolo una radicale trasformazione, passando da un testo costituito da prosa assonante e ritmo libero ad un testo ritmizzato dagli accenti e dalla presenza di rime: “a partire dalla fine dell’XI secolo la rima rimpiazza l’assonanza, la poesia rimpiazza la prosa e compare l’accento tonico… questa nuova sequenza prenderà la sua forma definitiva, detta ‘sequenza della seconda epoca’, nel XII secolo ed avrà il suo culmine con i musicisti di San Vittore”, il primo poeta e musico essendo stato Abelardo, il grande avversario di Bernardo (Gasparri 2 pag. 59). Goffredo si inserisce a pieno titolo in questa linea di importante innovazione con le sue opere, di cui la Sequentia Sancti Vittori insieme al Planctus ante nescia, antenato del più noto Stabat Mater (Gasparri 2 pag. 61), sono considerate le principali.
Il fatto che Abelardo fosse stato l’iniziatore di questa nuova forma di musica sacra e che il priore Gautier sia stato un suo avversario, attaccandolo nel suo testo Contra quatuor labirynthos Francie (Gasparri 1 pag. 279), potrebbe spiegarci l’inimicizia tra Gautier e Goffredo e la conseguente cacciata di questi dall’Abbazia.
Pertanto Goffredo può legittimamente essere considerato tra i fondatori della musica sacra e, si noti bene, della sua forma ritmica: se si ha presente cosa voglia dire un “ritmo” in qualunque forma di via iniziatica, orientale o occidentale, si potrebbe forse trovare un indizio per una particolare valutazione della figura di Goffredo alla luce di quanto appresso scriveremo.
Come scrive Gasparri (Gasparri 2 pag. 62): “siamo autorizzati a pensare che questo canonico, così poco conformista da dover lasciare per parecchi anni il convento, non sia solamente una figura originale di professore o di predicatore ma giocò un ruolo importante nello sviluppo e nella trasformazione della poesia e soprattutto della musica”.
Ma le innovazioni di questo monaco non si esauriscono qui: dobbiamo a lui il primo autoritratto riportato su di un codice, i cui particolari richiedono un attento esame.
Si tratta di due disegni riportati nel cod. Mazzarino 1002 (fogli 1v e 144r): nel primo egli si è ritratto seduto in cattedra con i piedi poggiati su di una predella a triangoli alterni bianchi e neri, vestito con l’abito bianco del professore, con un libro aperto in mano su cui è scritto “prosaïce, rytmice, metrice, melice”, allusione alla sua attività di filosofo e di poeta-musico, ed intorno alla testa “age que docet hic Godefridus qui legi hec avidus in eis cum turture ut tibi sit fidus” .
Ancora più interessante il secondo ritratto per la particolare ambientazione che Goffredo ha voluto dare alla propria immagine: si è dipinto con la veste nera del vittorino inquadrato al centro di tre archi ed in piedi tra due colonne, decorate alla sua destra forse da foglie stilizzate e alla sinistra da una spirale a due colori, sul fondo le due cupole del Tempio di Salomone e del Santo Sepolcro e la scritta, se ci fossero stati dubbi sulla località, Syon. I piedi di Goffredo poggiano su di un pavimento a scacchi bianchi e rossi e nella mano destra porta una fascia su cui è scritto “aspicio cantans aspiciensque cano”. Sopra la sua testa due altre scritte: “speculator castrorum Dei” e sopra questa “super specula Domini sum stans iugiter per diem et super custodiam meam sum stans totis noctibus”.
Sopra la sua testa due altre scritte: “speculator castrorum Dei” e sopra questa “super specula Domini sum stans iugiter per diem et super custodiam meam sum stans totis noctibus” (citazione di Isaia 21, 8 nella versione della Nuova Vulgata; nella Vulgata Clementina è adoperato il singolare: “super speculam” -www.documentacatholicaomnia.eu).
La traduzione, tenendo conto del contesto in cui la frase si trova e seguendo la Vulgata Clementina ed i testi da essa dipendenti è: “O Signore, di giorno io sto sempre sulla torre di vedetta e tutte le notti sto in piedi al mio posto di guardia” (http://www.laparola.net/).
Se però teniamo conto della versione della Nuova Vulgata, corrispondente a quella usata da Goffredo, ove specula è un plurale neutro derivante da speculum (= specchio, immagine) e non un singolare femminile derivante da specula (= osservatorio), il testo potrebbe diventare: “Sulle immagini del Signore vigilo con attenzione per tutto il giorno e veglio sulla custodia di me stesso durante tutta la notte”, forse un riferimento alla Regola templare e a quella benedettina (ma ricordiamo che essendo vittorino Goffredo seguiva la regola agostiniana), in cui è prescritto di tenere una luce accesa di notte nel dormitorio per evitare gli assalti del Maligno.
Ma, poiché in latino medievale specularius, derivato da speculum o specular aventi anche il significato di “vetro delle finestre” o “finestra”, è sia il fabbricante di vetri che il mago che utilizza una superficie lucida per divinare (Du Cange sub voce), la prima parte della frase potrebbe essere interpretata come un gioco di parole per sottintendere una forma di contemplazione particolare per specula.
Se si cercavano indizi di suoi rapporti con i Templari, ci sembra che l’ambientazione scelta per il suo secondo autoritratto a Gerusalemme, e proprio tra le due cupole tra le quali vissero ed operarono i Cavalieri, i quali avevano sede nel Tempio di Salomone ma in quanto canonici dipendevano dal Santo Sepolcro, chiarisca ogni dubbio, anche se nel contempo ne fa sorgere altri. Ad esempio il pavimento a scacchi può essere un’allusione al Beauceant, lo stendardo dei Templari, che alcuni ritengono fosse non a bande ma a scacchi (però bianco e nero)? E le due colonne tra cui ha posto la sua immagine sono le due colonne del Tempio di Salomone, con il significato cabalistico che ne consegue?
Quest’ultima domanda non è retorica, non solo in quanto “il legame fra la scuola vittorina e la scuola cabalistica è molto forte” (Cerrini pag. 48), ma anche perché fra gli inni presenti nel codice della Regola appartenuto a Goffredo ne troviamo uno estremamente interessante, il Deus Pater piissime, inno successivamente caduto in desuetudine ma del quale alcune parti furono introdotte nel Veni Creator spiritus.
Il Deus Pater piissime costituisce un’invocazione dei diversi nomi di Dio, come già li aveva raccolti Isidoro di Siviglia nelle Etimologie, testo considerato basilare nel Medio Evo, nomi sia in latino che in greco e in ebraico: tra questi ultimi si trova il Tetragrammaton, cioè le quattro lettere di cui è composto il nome di Yahweh, impronunciabile per gli ebrei i quali lo sostituiscono con Adonai.
Diverse sono le forme del Nome nei vari autori: ad esempio per Isidoro, il quale lo pone al nono posto tra i dieci nomi ebraici di Dio, il Tetragrammaton è iod he iod he, ed egli lo spiega dicendo: "Il nono nome è Tetragrammaton il che significa ‘di Quattro Lettere’, dovuto al fatto che presso gli ebrei il nome di Dio è composto prevalentemente dalle lettere iod, he, iod, he che formano l'appellativo Yah, ripetuto due volte; tale ripetizione dà forma all'ineffabile e glorioso nome di Dio, ineffabile non perché non possa essere pronunciato, ma perchè in modo alcuno può essere delimitato dalla capacità di comprensione dell'intelletto umano. Dio è dunque ineffabile perché nulla può dirsi di lui in modo conveniente" (VII, 1, 16).
Nella editio princeps del testo dell’inno fatta dalla Gierløw (pag. 91, rigo 168) il Tetragrammaton diventa iod he waw heth, mentre nel testo di Goffredo è heth waw iod taw (precisamente nel testo Goffredo ha scritto per esteso di suo pugno eth vav ioht thau alla fine della colonna precedente quella in cui l’amanuense ha riportato il Tetragrammaton con le sole lettere ebraiche, rispettivamente foglio 76 v e 77 r del codice).
Il nome di Yahweh in genere è scritto con le lettere iod he waw he, ma queste variazioni di lettere non sono casuali o dovute ad ignoranza poichè ogni lettera ebraica ha nella esegesi cristiana un suo significato secondo quanto scrive il Padre Testi (cap. 4), anzi le permutazioni delle lettere costituiscono una delle basi della Qabbalah; queste varianti possono essere all’incirca tradotte:
Isidoro: iod he iod he = il Principio riceve il Principio (come) se stesso
Gierløw: iod he waw heth = il Principio ha in se stesso la vita
Goffredo: heth waw iod taw = la vita in Lui ha principio dalla morte
ed infine: iod he waw he = il Principio ha in sé se stesso
per cui la variante di Goffredo ha un significato più eminentemente cristiano, in quanto fa riferimento alla morte in croce del Cristo come fonte della vita, cioè della redenzione degli uomini (il taw per la sua forma + oppure x venne dai primi cristiani considerato in modo precipuo simbolo della croce del Cristo).
Nel testo dell’inno si spiegano le lettere del Tetragrammaton in questo modo: “ioth dicitur principium, he ista, uau vita, heth passionis obitum, latine sic expositum est Xristus uita omnium” (edizione Gierløw), ove però si dà alla lettera heth un significato che è invece quello di waw (heth vale per vita e waw corrisponde alla congiunzione “e” oppure a “in Esso”, cioè il Cristo), errore che ben corregge Goffredo sostituendo a heth la lettera taw.
La vera importanza dell’inno Deus Pater piissime risiede però secondo noi in un'altro aspetto di esso in connessione con la Cavalleria e quindi anche con i Templari: nel Roman de Perceval ou le Comte du Graal Chretien de Troyes (guarda caso, nato come Hugues de Payns, fondatore dell’Ordine del Tempio, nella regione di Champagne), l’autore che per primo introduce nei romanzi cavallereschi il mito del Graal, accenna ad una forma particolare di preghiera che Parsifal deve imparare dall’eremita suo zio.
Dice Chretien: “L’eremita in gran segreto gli insegna una certa preghiera e gliela ripete finché lui la sappia, e quella preghiera conteneva molti nomi del signore Iddio, i più potenti, e che alcuna bocca umana deve pronunciare se non per paura della morte. Quando la preghiera fu appresa, gli proibisce di dire quei nomi se non in gran periglio” (pag. 119).
Potrebbero essere questi del Deus Pater piissime i “nomi potenti” del santo eremita, difesa del Cavaliere nell’ora del pericolo? Non a caso alcuni di questi nomi sono stati ritrovati, come riferisce la Gierløw nel saggio citato, incisi in lettere runiche, lettere magiche per eccellenza, su di alcune croci scandinave.
Non si deve certo intendere con questo che il Deus Pater piissime sia di per sé da identificare con i “nomi potenti” insegnati dall’eremita a Parsifal: la più antica copia manoscritta dell’inno risale all’XI secolo (Biblioteca Vallicelliana B 63) e la sua grande diffusione nel mondo cristiano ci dice come esso non fosse certamente un testo esoterico riservato a pochi eletti, essendo più probabile che solo alcuni dei Nomi presenti nel testo (o altri ancora?) facessero parte della preghiera insegnata al Cavaliere, anche se non ci è possibile dire quali di preciso essi fossero.
Nel cristianesimo la pratica della preghiera basata sul Nome è molto antica, basti pensare all’uso di accompagnare il segno di Croce con le parole “Nel Nome…”, segno non solo di una affermazione di fede ma anche di una richiesta di protezione. Il “potere del Nome” è spiegato in modo chiaro da Paolo (Fil 2, 9 - 11): “Dio lo ha insignito del Nome che è sopra ogni nome, affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio, degli esseri celesti, dei terrestri e dei sotterranei, ed ogni lingua proclami che Gesù Cristo è Signore” (più estesamente sull’argomento del Nome si veda: Galiano Dottrina e simboli del Cristianesimo delle origini in “Simmetria” 2005, 7).
Uno sviluppo della preghiera basata sul Nome nell’ambito cristiano è la tecnica dell’Esicasmo. tutt’ora in uso presso alcuni monasteri di rito greco; quella invece su cui vogliamo soffermarci è l’analoga pratica in uso nell’Islam e in particolare proprio nell’ambito cavalleresco che qui ci interessa.
Parliamo del dhikr, la forma di preghiera islamica consistente nella ripetizione dei Novantanove Nomi di Allah, preghiera ovviamente comune a tutti i fedeli musulmani ma che in particolare viene considerata basilare per gli appartenenti alla futuwwa, la “Cavalleria spirituale” islamica. E’ scritto nel Kitāb-ul-Futuwwa (Il Libro della Cavalleria spirituale) che “è tipico della cavalleria che il servitore (cioè il cavaliere o fatā, il “giovane”) porti l’impronta esteriore ed interiore del dhikr” (2, 3) e che “è un procedimento della cavalleria vivificare la propria interiorità con il dhikr di Allah” (2,9); colui che segue tale pratica riceve un particolare rispetto dagli altri cavalieri: “è tipica della cavalleria l’umiltà verso chi pratica il dhikr” (2,40).
Anche se tralasciamo volutamente la questione dei possibili rapporti tra Cavalleria cristiana, e Ordine del Tempio in particolare, e Cavalleria islamica, ci sembra necessario sottolineare l’esistenza di un’analoga forma di pratica tra questi due mondi contrapposti ma in realtà vicini nell’ambito della Tradizione. Certo, non possiamo dire se nel Cavaliere cristiano tale pratica si limitasse ad una forma di preghiera da recitarsi “in gran periglio” o se, come nell’Islam, si sottintendesse una vera e propria tecnica contemplativa, ma l’antichità dell’uso della “ripetizione del Nome” in particolari ambiti è tale da far pensare che in realtà fosse proprio così.
Dobbiamo infatti ricordare che già nell’Egitto del Medio Regno nel XIII secolo a.C. la “ripetizione del Nome” costituiva una tecnica ben precisa, come si evince da una frase dell’Ora Dodicesima del Libro di ciò che è nell’Amduat: “I privilegiati di Râ sono davanti a lui e dietro di lui e nascono ogni giorno sulla terra... essi entrano in questa misteriosa immagine del serpente ‘Che fa vivere gli Dèi’ come privilegiati. Essi escono come ‘giovani di Râ’ ogni giorno. È il loro abominio essere svogliati sulla terra nel pronunciare il nome del grande Dio” (Galiano La via iniziatica dei Faraoni pag. 115 – 116). Tra l’altro è da sottolineare l’utilizzo del termine ‘giovani di Râ’, visto che in arabo il termine che indica il cavaliere, fatā, vuol dire anche giovane, e che nei romanzi del ciclo bretone il Graal ha tra i suoi effetti quello di donare il vigore della giovinezza.
Torniamo a Goffredo di San Vittore: il fatto che egli fosse vittorino lo collega sia pure indirettamente ai Templari, in quanto l’Ordine del Tempio era costituito non da monaci ma da canonici, i quali, dipendendo ecclesiasticamente dai canonici del Santo Sepolcro di Gerusalemme, erano agostiniani (e non una sorta di terziari cistercensi) come i monaci di San Vittore, e almeno due tra i Padri che parteciparono al Concilio di Troyes, nel quale venne fondato ufficialmente l’Ordine, erano vescovi dell’Abbazia di San Vittore.
Ricordiamo che fino a poco tempo fa la lettera Christi militibus indirizzata ai Cavalieri del Tempio era ritenuta avesse per autore Ugo di San Vittore, uno dei maggiori teologi vittorini, contemporaneo di Hugues de Payns: la critica più recente tende ad attribuire invece a quest’ultimo la paternità della lettera (Cerrini pag. 27 ss.). Se l’autore fosse Ugo di San Vittore avremmo un ulteriore segnale dell’importanza che l’Ordine di San Vittore dava ai Cavalieri del Tempio. Se invece l’autore fosse Hugues de Payns, si avrebbe un altro segno della “novità” del pensiero templare, poiché la parte più importante della lettera si incentra sul problema della intenzionalità dell’atto: ciò che conta non è l’atto in sé, uccidere il nemico, ma l’intenzione che si ha, non agire sotto la spinta dell’odio. Questa “teoria dell’intenzione” coincide con le tesi di Abelardo: “abbiamo qui la prova che tra la rivoluzione intellettuale sostenuta dal maestro Abelardo e quella di maestro Hugo c’è un legame sostanziale” (Cerrini ibidem).
La figura di Goffredo per molti aspetti può essere direttamente accostata all’ambito dell’Ordine del Tempio: il privilegio di possedere una copia della Regola, la raffigurazione che egli fa di sé medesimo tra i due Templi di Gerusalemme, l’innovazione di cui fu partecipe, e non tra gli ultimi, nella rivoluzione della musica sacra introducendo il ritmo e la rima al posto dell’assonanza, con quanto è sotteso al concetto di “ritmo”, infine il suo particolare interesse per un inno quale il Deus pater piissime, tanto da chiosarlo di suo pugno, inno connesso all’uso dei “nomi di potenza” di cui parla Chretien de Troyes.
Dobbiamo a questo punto fare una precisazione: la musica ritmata e rimata esisteva già nel XII secolo, ma era appannaggio dei laici, era la musica dei trobadoures e dei minnesanger i quali cantavano le loro opere ad altri laici, signori e popolani. L’opera dei musici vittorini quindi tendeva al recupero di una forma musicale prettamente laica introducendola in un ambito diverso, o meglio a livello di una classe sociale diversa, poiché nel mondo medievale era fortemente sentita la distinzione della società in tre classi, i clerices, sacerdoti e monaci, i bellatores, cioè i Cavalieri, e i laboratores, il popolo dei contadini e dei piccoli mercanti, non esistendo ancora una vera borghesia.
D’altro canto l’Ordine del Tempio era per sua natura sulla stessa linea: i Templari non erano monaci ma canonici e si ponevano come una classe a sé stante al di là di clerices e bellatores, di cui avevano assunto le caratteristiche principali. Ma essi svolgevano anche attività prettamente laiche, come quelle di costruttori, di amministratori, di banchieri ante litteram: si pensi ai vasti possedimenti fondiari che furono donati ai Templari fin dall’inizio dell’Ordine, poichè le prime donazioni furono ricevute già da Hugues de Payns, e l’organizzazione che ne derivava, con edifici da erigere, strade e ponti da costruire, porti in cui accogliere le navi dell’Ordine, e così via.
Da questo punto di vista essi quindi entravano anche, ovviamente con mansioni diremmo oggi dirigenziali, anche nella classe dei laboratores, i quali svolgevano tutte le attività che non erano comprese nel pregare e nel combattere.
In altre parole essi riunivano in sé le principali caratteristiche delle tre classi in cui era suddivisa la società del Medio Evo, e per tale motivo recuperavano pienamente la condizione del laico nel senso originario del termine, uomo fatto ad immagine perfetta del Cristo, conservatore e prosecutore della creazione divina, il quale ha il fine di perfezionarla e vivificarla in vista della Parousia finale.
Precisiamo che il termine “laico” nulla ha a che vedere con il concetto di “laicismo” corrente ma bene lo spiegò Mordini in suo articolo: “Il termine ‘demos’ è con ogni probabilità da accostarsi al verbo greco δάιο che significa divido; demos è quindi il popolo in quanto diviso e distribuito in demi, è il popolo da ordinare e da controllare, suscettibile di sovversivismo… Invece ‘laos’ è termine usato nella traduzione della Bibbia in greco per indicare il popolo eletto e va messo in relazione con λάας, pietra: ciò farebbe pensare al popolo proprio nel senso edile e simbolico di pietra per la costruzione del Tempio” (Maria janua coeli pagg. 28 e 33).
Possiamo quindi concludere che Goffredo di San Vittore ebbe un ruolo forse non secondario nella creazione di quello che potremmo definire il “pensiero Templare”, un aspetto dell’Ordine che a nostro avviso è ancora tutto da scoprire e da portare alla luce.
BIBLIOGRAFIA
1. Cerrini S. La rivoluzione dei Templari, Mondadori, Milano 2008 2. Chretien de Troyes Perceval o il racconto del Graal (trad. Agrati-Mangini), Guanda, Milano 19793. Demurger A. Vita e morte dell’Ordine dei Templari, Garzanti, Milano 1987 (Paris 1985)4. Galiano P. La Regola primitiva dell’Ordine del Tempio, Simmetria, Roma 20045. Galiano P. La via iniziatica dei Faraoni, Simmetria, Roma 20086. Gasparri F. 1 Textes autographes d’autres victorins du XII° siècle, in “Scriptorium” XXXV 1981, 2 pagg. 277 - 2847. Gasparri F. 2 Godefroid de Saint-Victor: une personnalité peu connue du monde intellectuel et artistique parisien au XII° siècle, in “Scriptorium” XXXIX 1985, 1, pagg. 57 – 90 8. Gierløw L. Deus pater piissime og blykorsene fra Stavanger bisbedømme in “Arbok-Stavanger Museum”, 1954, pagg. 85 – 109 9. Isidoro di Siviglia Etimologie o Origini (trad. Valastro Canale), Utet, Torino 200410. Molle J. V. I Templari: la regola e gli Statuti dell’Ordine, ECIG, Genova 200011. Mordini A. Maria janua coeli, in ”Adveniat Regnum” 1964, 2 12. Ouy G. Manuscrits entierèment ou partiellement autographes de Godefroid de Saint-Victor, in “Scriptorium” XXXVI 1982, 1 – pagg. 29 – 4213. Sulamī M. Kitāb-ul-Futuwwa (trad. G. Sassi La cavalleria spirituale), Luni, Milano 199814. Testi E. Il simbolismo dei giudeo-cristiani, Franciscan printing press, Gerusalemme 1981 (I ed. 1961)
Alcuni manoscritti latini furono collazionati nel 1903 dallo Schnürer (Galiano pag. 1) ma l’opera completa è stata effettuata in tempi più recenti dalla Cerrini, la quale ha anche pubblicato in seguito un’interessante esame critico dei singoli manoscritti considerati da un punto di vista storico, per il quale rimandiamo all’opera citata.
Quello che a noi maggiormente interessa per i motivi che più avanti spiegheremo è il manoscritto ora conservato presso la Biblioteque Nationale di Parigi, con l’indicazione lat. 15045, uno di quelli adoperati dallo Schnürer per il suo lavoro. E’ l’unico manoscritto di cui si conosca il nome del possessore: il monaco Goffredo dell’Abbazia di san Vittore di Parigi, personaggio noto nell’ambiente degli specialisti perché alcuni testi scritti di suo pugno sono giunti fino a noi, ma della cui vita abbiamo scarsa conoscenza, derivante per altro in gran parte dalle sue stesse opere.
Sappiamo che era contemporaneo di San Bernardo e di Abelardo (Gasparri 2 pag 57, da cui sono tratte le successive informazioni sulla vita di Goffredo), aveva studiato a Parigi alla scuola di Petit-Point e solo dopo aver insegnato per molti anni, non sappiamo dove, entrò nella celebre Abbazia di San Vittore, uno dei centri intellettuali della Francia del XII secolo. Fu perseguitato per motivi che non sappiamo, ma certamente legati alla sua personalità innovativa e audace, tanto da essere cacciato dall’Abbazia dal priore Gautier per esservi riammesso solo dopo molti anni con l’ufficio di armarius, cioè bibliotecario addetto anche alla correzione dei testi e alla direzione del canto dell’Ufficio (idem pag. 62); altri (si veda Gasparri 1 pag. 280) ritengono che egli fosse vice priore di San Vittore nel 1173. La data della sua morte dovrebbe collocarsi verso la fine del secolo (secondo Ouy nel 1194 – pag. 38), visto che egli non portò a termine l’elaborazione definitiva del suo lavoro più importante, il Microcosmus, la cui prima stesura dovrebbe risalire al 1185 (Ouy pag. 32).
Secondo una supposizione della Cerrini (pag. 47) il periodo di tempo nel quale Goffredo fu allontanato dall’Abbazia potrebbe averlo trascorso in una commenda del Tempio, ove avrebbe avuto la possibilità di farsi trascrivere il testo della Regola, si suppone tra il 1160 e il 1180 (Cerrini pag. 182).
Negli Statuti o Retrais al paragrafo 326 si fa espresso divieto di “portare con sé gli Statuti o la Regola senza aver ricevuto il permesso del convento, infatti il convento prescrive che non li abbiano con sé, poiché è accaduto che (siano stati) letti e rivelati ai laici, esponendo l’Ordine a gravi rischi” (Molle pag. 124): ciò fa quindi pensare che sia stato fatto un particolare onore a Goffredo dandogli il permesso di avere una copia personale della Regola, la quale fu scritta da un amanuense e non copiata da lui personalmente, la sua calligrafia infatti è nota agli studiosi di manoscritti medievali.
Questa copia della Regola, come era in uso all’epoca, fa parte di un codice più ampio comprendente (Cerrini pag. 182) anche il De laude di San Bernardo, due opere di Anselmo di Canterbury, una raccolta di salmi ed inni e la Sequentia Sancti Vittori dello stesso Goffredo, questa scritta di suo pugno e comprendente anche le notazioni musicali (Gasparri 2 pag. 58), come di suo pugno sono altri tre inni conservati nel codice Mazzarino 1002 (idem pag. 61). Tra gli inni riportati nel codice contenente la Regola ve ne è uno particolarmente interessante, sul quale ritorneremo dopo aver approfondito alcuni aspetti delle attività di Goffredo.
La musica sacra nella sua forma di “sequenza” subisce nell’XI-XII secolo una radicale trasformazione, passando da un testo costituito da prosa assonante e ritmo libero ad un testo ritmizzato dagli accenti e dalla presenza di rime: “a partire dalla fine dell’XI secolo la rima rimpiazza l’assonanza, la poesia rimpiazza la prosa e compare l’accento tonico… questa nuova sequenza prenderà la sua forma definitiva, detta ‘sequenza della seconda epoca’, nel XII secolo ed avrà il suo culmine con i musicisti di San Vittore”, il primo poeta e musico essendo stato Abelardo, il grande avversario di Bernardo (Gasparri 2 pag. 59). Goffredo si inserisce a pieno titolo in questa linea di importante innovazione con le sue opere, di cui la Sequentia Sancti Vittori insieme al Planctus ante nescia, antenato del più noto Stabat Mater (Gasparri 2 pag. 61), sono considerate le principali.
Il fatto che Abelardo fosse stato l’iniziatore di questa nuova forma di musica sacra e che il priore Gautier sia stato un suo avversario, attaccandolo nel suo testo Contra quatuor labirynthos Francie (Gasparri 1 pag. 279), potrebbe spiegarci l’inimicizia tra Gautier e Goffredo e la conseguente cacciata di questi dall’Abbazia.
Pertanto Goffredo può legittimamente essere considerato tra i fondatori della musica sacra e, si noti bene, della sua forma ritmica: se si ha presente cosa voglia dire un “ritmo” in qualunque forma di via iniziatica, orientale o occidentale, si potrebbe forse trovare un indizio per una particolare valutazione della figura di Goffredo alla luce di quanto appresso scriveremo.
Come scrive Gasparri (Gasparri 2 pag. 62): “siamo autorizzati a pensare che questo canonico, così poco conformista da dover lasciare per parecchi anni il convento, non sia solamente una figura originale di professore o di predicatore ma giocò un ruolo importante nello sviluppo e nella trasformazione della poesia e soprattutto della musica”.
Ma le innovazioni di questo monaco non si esauriscono qui: dobbiamo a lui il primo autoritratto riportato su di un codice, i cui particolari richiedono un attento esame.
Si tratta di due disegni riportati nel cod. Mazzarino 1002 (fogli 1v e 144r): nel primo egli si è ritratto seduto in cattedra con i piedi poggiati su di una predella a triangoli alterni bianchi e neri, vestito con l’abito bianco del professore, con un libro aperto in mano su cui è scritto “prosaïce, rytmice, metrice, melice”, allusione alla sua attività di filosofo e di poeta-musico, ed intorno alla testa “age que docet hic Godefridus qui legi hec avidus in eis cum turture ut tibi sit fidus” .
Ancora più interessante il secondo ritratto per la particolare ambientazione che Goffredo ha voluto dare alla propria immagine: si è dipinto con la veste nera del vittorino inquadrato al centro di tre archi ed in piedi tra due colonne, decorate alla sua destra forse da foglie stilizzate e alla sinistra da una spirale a due colori, sul fondo le due cupole del Tempio di Salomone e del Santo Sepolcro e la scritta, se ci fossero stati dubbi sulla località, Syon. I piedi di Goffredo poggiano su di un pavimento a scacchi bianchi e rossi e nella mano destra porta una fascia su cui è scritto “aspicio cantans aspiciensque cano”. Sopra la sua testa due altre scritte: “speculator castrorum Dei” e sopra questa “super specula Domini sum stans iugiter per diem et super custodiam meam sum stans totis noctibus”.
Sopra la sua testa due altre scritte: “speculator castrorum Dei” e sopra questa “super specula Domini sum stans iugiter per diem et super custodiam meam sum stans totis noctibus” (citazione di Isaia 21, 8 nella versione della Nuova Vulgata; nella Vulgata Clementina è adoperato il singolare: “super speculam” -www.documentacatholicaomnia.eu).
La traduzione, tenendo conto del contesto in cui la frase si trova e seguendo la Vulgata Clementina ed i testi da essa dipendenti è: “O Signore, di giorno io sto sempre sulla torre di vedetta e tutte le notti sto in piedi al mio posto di guardia” (http://www.laparola.net/).
Se però teniamo conto della versione della Nuova Vulgata, corrispondente a quella usata da Goffredo, ove specula è un plurale neutro derivante da speculum (= specchio, immagine) e non un singolare femminile derivante da specula (= osservatorio), il testo potrebbe diventare: “Sulle immagini del Signore vigilo con attenzione per tutto il giorno e veglio sulla custodia di me stesso durante tutta la notte”, forse un riferimento alla Regola templare e a quella benedettina (ma ricordiamo che essendo vittorino Goffredo seguiva la regola agostiniana), in cui è prescritto di tenere una luce accesa di notte nel dormitorio per evitare gli assalti del Maligno.
Ma, poiché in latino medievale specularius, derivato da speculum o specular aventi anche il significato di “vetro delle finestre” o “finestra”, è sia il fabbricante di vetri che il mago che utilizza una superficie lucida per divinare (Du Cange sub voce), la prima parte della frase potrebbe essere interpretata come un gioco di parole per sottintendere una forma di contemplazione particolare per specula.
Se si cercavano indizi di suoi rapporti con i Templari, ci sembra che l’ambientazione scelta per il suo secondo autoritratto a Gerusalemme, e proprio tra le due cupole tra le quali vissero ed operarono i Cavalieri, i quali avevano sede nel Tempio di Salomone ma in quanto canonici dipendevano dal Santo Sepolcro, chiarisca ogni dubbio, anche se nel contempo ne fa sorgere altri. Ad esempio il pavimento a scacchi può essere un’allusione al Beauceant, lo stendardo dei Templari, che alcuni ritengono fosse non a bande ma a scacchi (però bianco e nero)? E le due colonne tra cui ha posto la sua immagine sono le due colonne del Tempio di Salomone, con il significato cabalistico che ne consegue?
Quest’ultima domanda non è retorica, non solo in quanto “il legame fra la scuola vittorina e la scuola cabalistica è molto forte” (Cerrini pag. 48), ma anche perché fra gli inni presenti nel codice della Regola appartenuto a Goffredo ne troviamo uno estremamente interessante, il Deus Pater piissime, inno successivamente caduto in desuetudine ma del quale alcune parti furono introdotte nel Veni Creator spiritus.
Il Deus Pater piissime costituisce un’invocazione dei diversi nomi di Dio, come già li aveva raccolti Isidoro di Siviglia nelle Etimologie, testo considerato basilare nel Medio Evo, nomi sia in latino che in greco e in ebraico: tra questi ultimi si trova il Tetragrammaton, cioè le quattro lettere di cui è composto il nome di Yahweh, impronunciabile per gli ebrei i quali lo sostituiscono con Adonai.
Diverse sono le forme del Nome nei vari autori: ad esempio per Isidoro, il quale lo pone al nono posto tra i dieci nomi ebraici di Dio, il Tetragrammaton è iod he iod he, ed egli lo spiega dicendo: "Il nono nome è Tetragrammaton il che significa ‘di Quattro Lettere’, dovuto al fatto che presso gli ebrei il nome di Dio è composto prevalentemente dalle lettere iod, he, iod, he che formano l'appellativo Yah, ripetuto due volte; tale ripetizione dà forma all'ineffabile e glorioso nome di Dio, ineffabile non perché non possa essere pronunciato, ma perchè in modo alcuno può essere delimitato dalla capacità di comprensione dell'intelletto umano. Dio è dunque ineffabile perché nulla può dirsi di lui in modo conveniente" (VII, 1, 16).
Nella editio princeps del testo dell’inno fatta dalla Gierløw (pag. 91, rigo 168) il Tetragrammaton diventa iod he waw heth, mentre nel testo di Goffredo è heth waw iod taw (precisamente nel testo Goffredo ha scritto per esteso di suo pugno eth vav ioht thau alla fine della colonna precedente quella in cui l’amanuense ha riportato il Tetragrammaton con le sole lettere ebraiche, rispettivamente foglio 76 v e 77 r del codice).
Il nome di Yahweh in genere è scritto con le lettere iod he waw he, ma queste variazioni di lettere non sono casuali o dovute ad ignoranza poichè ogni lettera ebraica ha nella esegesi cristiana un suo significato secondo quanto scrive il Padre Testi (cap. 4), anzi le permutazioni delle lettere costituiscono una delle basi della Qabbalah; queste varianti possono essere all’incirca tradotte:
Isidoro: iod he iod he = il Principio riceve il Principio (come) se stesso
Gierløw: iod he waw heth = il Principio ha in se stesso la vita
Goffredo: heth waw iod taw = la vita in Lui ha principio dalla morte
ed infine: iod he waw he = il Principio ha in sé se stesso
per cui la variante di Goffredo ha un significato più eminentemente cristiano, in quanto fa riferimento alla morte in croce del Cristo come fonte della vita, cioè della redenzione degli uomini (il taw per la sua forma + oppure x venne dai primi cristiani considerato in modo precipuo simbolo della croce del Cristo).
Nel testo dell’inno si spiegano le lettere del Tetragrammaton in questo modo: “ioth dicitur principium, he ista, uau vita, heth passionis obitum, latine sic expositum est Xristus uita omnium” (edizione Gierløw), ove però si dà alla lettera heth un significato che è invece quello di waw (heth vale per vita e waw corrisponde alla congiunzione “e” oppure a “in Esso”, cioè il Cristo), errore che ben corregge Goffredo sostituendo a heth la lettera taw.
La vera importanza dell’inno Deus Pater piissime risiede però secondo noi in un'altro aspetto di esso in connessione con la Cavalleria e quindi anche con i Templari: nel Roman de Perceval ou le Comte du Graal Chretien de Troyes (guarda caso, nato come Hugues de Payns, fondatore dell’Ordine del Tempio, nella regione di Champagne), l’autore che per primo introduce nei romanzi cavallereschi il mito del Graal, accenna ad una forma particolare di preghiera che Parsifal deve imparare dall’eremita suo zio.
Dice Chretien: “L’eremita in gran segreto gli insegna una certa preghiera e gliela ripete finché lui la sappia, e quella preghiera conteneva molti nomi del signore Iddio, i più potenti, e che alcuna bocca umana deve pronunciare se non per paura della morte. Quando la preghiera fu appresa, gli proibisce di dire quei nomi se non in gran periglio” (pag. 119).
Potrebbero essere questi del Deus Pater piissime i “nomi potenti” del santo eremita, difesa del Cavaliere nell’ora del pericolo? Non a caso alcuni di questi nomi sono stati ritrovati, come riferisce la Gierløw nel saggio citato, incisi in lettere runiche, lettere magiche per eccellenza, su di alcune croci scandinave.
Non si deve certo intendere con questo che il Deus Pater piissime sia di per sé da identificare con i “nomi potenti” insegnati dall’eremita a Parsifal: la più antica copia manoscritta dell’inno risale all’XI secolo (Biblioteca Vallicelliana B 63) e la sua grande diffusione nel mondo cristiano ci dice come esso non fosse certamente un testo esoterico riservato a pochi eletti, essendo più probabile che solo alcuni dei Nomi presenti nel testo (o altri ancora?) facessero parte della preghiera insegnata al Cavaliere, anche se non ci è possibile dire quali di preciso essi fossero.
Nel cristianesimo la pratica della preghiera basata sul Nome è molto antica, basti pensare all’uso di accompagnare il segno di Croce con le parole “Nel Nome…”, segno non solo di una affermazione di fede ma anche di una richiesta di protezione. Il “potere del Nome” è spiegato in modo chiaro da Paolo (Fil 2, 9 - 11): “Dio lo ha insignito del Nome che è sopra ogni nome, affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio, degli esseri celesti, dei terrestri e dei sotterranei, ed ogni lingua proclami che Gesù Cristo è Signore” (più estesamente sull’argomento del Nome si veda: Galiano Dottrina e simboli del Cristianesimo delle origini in “Simmetria” 2005, 7).
Uno sviluppo della preghiera basata sul Nome nell’ambito cristiano è la tecnica dell’Esicasmo. tutt’ora in uso presso alcuni monasteri di rito greco; quella invece su cui vogliamo soffermarci è l’analoga pratica in uso nell’Islam e in particolare proprio nell’ambito cavalleresco che qui ci interessa.
Parliamo del dhikr, la forma di preghiera islamica consistente nella ripetizione dei Novantanove Nomi di Allah, preghiera ovviamente comune a tutti i fedeli musulmani ma che in particolare viene considerata basilare per gli appartenenti alla futuwwa, la “Cavalleria spirituale” islamica. E’ scritto nel Kitāb-ul-Futuwwa (Il Libro della Cavalleria spirituale) che “è tipico della cavalleria che il servitore (cioè il cavaliere o fatā, il “giovane”) porti l’impronta esteriore ed interiore del dhikr” (2, 3) e che “è un procedimento della cavalleria vivificare la propria interiorità con il dhikr di Allah” (2,9); colui che segue tale pratica riceve un particolare rispetto dagli altri cavalieri: “è tipica della cavalleria l’umiltà verso chi pratica il dhikr” (2,40).
Anche se tralasciamo volutamente la questione dei possibili rapporti tra Cavalleria cristiana, e Ordine del Tempio in particolare, e Cavalleria islamica, ci sembra necessario sottolineare l’esistenza di un’analoga forma di pratica tra questi due mondi contrapposti ma in realtà vicini nell’ambito della Tradizione. Certo, non possiamo dire se nel Cavaliere cristiano tale pratica si limitasse ad una forma di preghiera da recitarsi “in gran periglio” o se, come nell’Islam, si sottintendesse una vera e propria tecnica contemplativa, ma l’antichità dell’uso della “ripetizione del Nome” in particolari ambiti è tale da far pensare che in realtà fosse proprio così.
Dobbiamo infatti ricordare che già nell’Egitto del Medio Regno nel XIII secolo a.C. la “ripetizione del Nome” costituiva una tecnica ben precisa, come si evince da una frase dell’Ora Dodicesima del Libro di ciò che è nell’Amduat: “I privilegiati di Râ sono davanti a lui e dietro di lui e nascono ogni giorno sulla terra... essi entrano in questa misteriosa immagine del serpente ‘Che fa vivere gli Dèi’ come privilegiati. Essi escono come ‘giovani di Râ’ ogni giorno. È il loro abominio essere svogliati sulla terra nel pronunciare il nome del grande Dio” (Galiano La via iniziatica dei Faraoni pag. 115 – 116). Tra l’altro è da sottolineare l’utilizzo del termine ‘giovani di Râ’, visto che in arabo il termine che indica il cavaliere, fatā, vuol dire anche giovane, e che nei romanzi del ciclo bretone il Graal ha tra i suoi effetti quello di donare il vigore della giovinezza.
Torniamo a Goffredo di San Vittore: il fatto che egli fosse vittorino lo collega sia pure indirettamente ai Templari, in quanto l’Ordine del Tempio era costituito non da monaci ma da canonici, i quali, dipendendo ecclesiasticamente dai canonici del Santo Sepolcro di Gerusalemme, erano agostiniani (e non una sorta di terziari cistercensi) come i monaci di San Vittore, e almeno due tra i Padri che parteciparono al Concilio di Troyes, nel quale venne fondato ufficialmente l’Ordine, erano vescovi dell’Abbazia di San Vittore.
Ricordiamo che fino a poco tempo fa la lettera Christi militibus indirizzata ai Cavalieri del Tempio era ritenuta avesse per autore Ugo di San Vittore, uno dei maggiori teologi vittorini, contemporaneo di Hugues de Payns: la critica più recente tende ad attribuire invece a quest’ultimo la paternità della lettera (Cerrini pag. 27 ss.). Se l’autore fosse Ugo di San Vittore avremmo un ulteriore segnale dell’importanza che l’Ordine di San Vittore dava ai Cavalieri del Tempio. Se invece l’autore fosse Hugues de Payns, si avrebbe un altro segno della “novità” del pensiero templare, poiché la parte più importante della lettera si incentra sul problema della intenzionalità dell’atto: ciò che conta non è l’atto in sé, uccidere il nemico, ma l’intenzione che si ha, non agire sotto la spinta dell’odio. Questa “teoria dell’intenzione” coincide con le tesi di Abelardo: “abbiamo qui la prova che tra la rivoluzione intellettuale sostenuta dal maestro Abelardo e quella di maestro Hugo c’è un legame sostanziale” (Cerrini ibidem).
La figura di Goffredo per molti aspetti può essere direttamente accostata all’ambito dell’Ordine del Tempio: il privilegio di possedere una copia della Regola, la raffigurazione che egli fa di sé medesimo tra i due Templi di Gerusalemme, l’innovazione di cui fu partecipe, e non tra gli ultimi, nella rivoluzione della musica sacra introducendo il ritmo e la rima al posto dell’assonanza, con quanto è sotteso al concetto di “ritmo”, infine il suo particolare interesse per un inno quale il Deus pater piissime, tanto da chiosarlo di suo pugno, inno connesso all’uso dei “nomi di potenza” di cui parla Chretien de Troyes.
Dobbiamo a questo punto fare una precisazione: la musica ritmata e rimata esisteva già nel XII secolo, ma era appannaggio dei laici, era la musica dei trobadoures e dei minnesanger i quali cantavano le loro opere ad altri laici, signori e popolani. L’opera dei musici vittorini quindi tendeva al recupero di una forma musicale prettamente laica introducendola in un ambito diverso, o meglio a livello di una classe sociale diversa, poiché nel mondo medievale era fortemente sentita la distinzione della società in tre classi, i clerices, sacerdoti e monaci, i bellatores, cioè i Cavalieri, e i laboratores, il popolo dei contadini e dei piccoli mercanti, non esistendo ancora una vera borghesia.
D’altro canto l’Ordine del Tempio era per sua natura sulla stessa linea: i Templari non erano monaci ma canonici e si ponevano come una classe a sé stante al di là di clerices e bellatores, di cui avevano assunto le caratteristiche principali. Ma essi svolgevano anche attività prettamente laiche, come quelle di costruttori, di amministratori, di banchieri ante litteram: si pensi ai vasti possedimenti fondiari che furono donati ai Templari fin dall’inizio dell’Ordine, poichè le prime donazioni furono ricevute già da Hugues de Payns, e l’organizzazione che ne derivava, con edifici da erigere, strade e ponti da costruire, porti in cui accogliere le navi dell’Ordine, e così via.
Da questo punto di vista essi quindi entravano anche, ovviamente con mansioni diremmo oggi dirigenziali, anche nella classe dei laboratores, i quali svolgevano tutte le attività che non erano comprese nel pregare e nel combattere.
In altre parole essi riunivano in sé le principali caratteristiche delle tre classi in cui era suddivisa la società del Medio Evo, e per tale motivo recuperavano pienamente la condizione del laico nel senso originario del termine, uomo fatto ad immagine perfetta del Cristo, conservatore e prosecutore della creazione divina, il quale ha il fine di perfezionarla e vivificarla in vista della Parousia finale.
Precisiamo che il termine “laico” nulla ha a che vedere con il concetto di “laicismo” corrente ma bene lo spiegò Mordini in suo articolo: “Il termine ‘demos’ è con ogni probabilità da accostarsi al verbo greco δάιο che significa divido; demos è quindi il popolo in quanto diviso e distribuito in demi, è il popolo da ordinare e da controllare, suscettibile di sovversivismo… Invece ‘laos’ è termine usato nella traduzione della Bibbia in greco per indicare il popolo eletto e va messo in relazione con λάας, pietra: ciò farebbe pensare al popolo proprio nel senso edile e simbolico di pietra per la costruzione del Tempio” (Maria janua coeli pagg. 28 e 33).
Possiamo quindi concludere che Goffredo di San Vittore ebbe un ruolo forse non secondario nella creazione di quello che potremmo definire il “pensiero Templare”, un aspetto dell’Ordine che a nostro avviso è ancora tutto da scoprire e da portare alla luce.
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