di Michele Smargiassi (la Repubblica, 20.11.2009)
Nessun Vangelo, neppure gli apocrifi, parla di lui, lo scriba dell’atto di sepoltura di Gesù. I grandi libri della fede preferiscono i personaggi grandiosi agli sbiaditi comprimari rimasti al di qua del bene e del male. Eppure eccolo riemergere da duemila anni di oblio, così stagliato che par di vederlo. Un funzionario dell’Impero romano, un anziano impiegato ebreo della morgue di Gerusalemme, mano tremolante, parsimonioso, sbrigativo ma accurato. In una Deposizione barocca potremmo immaginarlo un po’ in disparte, intento a stilare i documenti richiesti dalla minuziosa burocrazia imperiale per il rilascio del cadavere di un giustiziato. Non sappiamo il suo nome. Ma quello scritto, che per lui era solo l’incombenza quotidiana di un poco gratificante mestiere, ora lo possediamo. Forse per gli anni passati a inseguirlo, forse per la familiarità coi misteri che deve avere una Ufficiale degli Archivi segreti del Vaticano, Barbara Frale non sembra emozionata nel confermarci quello che potrebbe essere uno dei ritrovamenti più sorprendenti dell’era cristiana: «Sì, penso di essere riuscita a leggere il certificato di sepoltura di Gesù il Nazareno». E quel che pare esservi scritto non solo accredita, ma arricchisce il racconto degli evangelisti.
È stato, per la verità, sotto i nostri occhi per secoli, impresso come una fotocopia sul telo più venerato della storia, la Sindone di Torino; ma per estrarlo di lì occorreva frugare il lino fibra per fibra, con sapere archeologico, storico, paleografico. Ciò che la dottoressa Frale assicura di aver decifrato, e come lo ha fatto, ce lo racconta lei stessa nel volume La sindone di Gesù Nazareno (Il Mulino, 375 pagine, 28 euro), sul quale prevedibilmente si scateneranno le controdeduzioni degli specialisti. Ma questo è il meno: se Frale vede giusto, allora si riapre clamorosamente, proprio alla vigilia della nuova ostensione torinese prevista in primavera, non solo la questione della datazione della Sindone, ma quella ben più scottante della sua autenticità come «la reliquia più splendida della Passione» (Giovanni Paolo II) e non più come semplice «icona veneranda» (cardinal Ballestrero).
La presenza di scritture sulla Sindone è nota da oltre trent’anni. Stringhe di caratteri latini greci e ebraici circondano il volto dell’Uomo, impresse in negativo: macchie chiare visibili solo dove si sovrappongono al colore rossastro che disegna l’immagine più controversa del mondo. Se ne accorse per primo nel 1978 il chimico Piero Ugolotti esaminando alcuni negativi fotografici del Telo, e sentendosi incompetente a decifrarle chiamò in aiuto il classicista Aldo Marastoni. Altri studiosi, francesi e italiani, recuperarono poi nuovi frammenti di vocaboli. L’insieme sembrava promettente: iber poteva essere un moncone di Tiberios, nome dell’imperatore regnante al tempo della Passione; l’apparente neazare suggeriva ovviamente un nazarenos, e quell’innece(m) poteva alludere alle circostanze di una morte. Il senso, però, restava un puzzle insolubile. A che genere di testo appartenevano quelle parole, ma prima ancora: come si stamparono sul lino?
Reperti che presentano ricalchi e impressioni delle scritture con cui vennero casualmente a contatto non sono rari in archeologia: tavolette d’argilla, persino strati di fango ci hanno trasmesso testi il cui supporto originario è andato perduto. Il metallo contenuto nell’inchiostro di un foglio venuto a contatto con la Sindone può aver rilasciato sul telo particelle poi "rivelate" dalla misteriosa reazione chimica che ha impresso l’immagine dei misteri. Ma di che foglio si trattava? Forse l’etichetta, la cedola, di uno dei reliquiari che custodirono la Sindone quando era già oggetto di culto? Ad ogni modo, quando nel 1988 la famosa e clamorosa prova del radiocarbonio stabilì per il Lenzuolo una data di nascita tardomedievale, l’interesse per la questione delle scritte crollò a zero: a chi poteva ormai interessare la presenza di complicati graffiti su una falsa reliquia?
Barbara Frale però è tra quanti non hanno mai creduto a quella datazione scientifica. Per lei, che ne ha tracciato la storia nel suo recente I Templari e la Sindone, il telo di Torino è il bizantino Mandylion di Edessa, trafugato durante il sacco di Costantinopoli del 1204, poi clandestinamente adorato dai monaci guerrieri. Dunque le scritte possono risalire ai primi secoli dell’era cristiana.
Devono, anche? Non mancherà chi accusi la ricercatrice di aver forzato le sue ipotesi per arrivare alla spiegazione più clamorosa. Lei lo mette in conto, e replica: «Non ho voluto dimostrare verità di fede. Io sono cattolica, ma tutti i miei maestri sono stati atei o agnostici, l’unico credente era ebreo. Il mio libro non si esprime sull’origine miracolosa o meno dell’immagine della Sindone. Fin dall ’inizio mi sono imposta, anche per disinnescare l’emozione che avrebbe potuto travolgermi, di lavorare come avrei fatto su qualsiasi reperto archeologico».
Frale procede per deduzione, confronto ed esclusione, come un detective. Impossibile, è la sua prima conclusione, che quelle scritte provengano da un testo scritto da cristiani; infatti, osserva, se oggi è abituale chiamare Gesù "il Nazareno", quell’appellativo diventò pressoché eretico per i fedeli dei primi secoli: troppo legato alla sola dimensione umana, terrena del Salvatore. «Sarebbe stata un ’offesa suprema scrivere Nazareno in un testo destinato al culto. Avremmo dovuto trovare invece Cristo: ma di quella parola sulla Sindone non c’è traccia». Quelle parole straordinariamente salvate dal ricalco, ne deduce, provengono da un documento pre-cristiano. E del tutto "laico". Parlano di Gesù dal punto di vista di chi lo considera solo un uomo. Un documento "gesuano", dunque, non "cristologico".
Ma a che scopo ne parlano? Il confronto con le sepolture coeve, lo studio delle procedure giudiziarie romane e dei regolamenti necrofori giudaici suggerisce alla fine questa ipotesi: un povero corpo crocifisso dopo una condanna poteva essere riconsegnato ai parenti solo dopo un anno di "purificazione" nella fossa comune; per identificarlo, evitando che si perdesse nel caos del sepolcreto di Gerusalemme, i necrofori utilizzavano cartigli incollati con colla di farina all ’esterno del sudario già avvolto attorno al cadavere, a incorniciarne il volto nascosto dalla tela. Corriamo avanti, alla ricostruzione finale proposta da Frale: un funzionario al servizio dell ’amministrazione romana, attingendo ai documenti del processo e nel rispetto delle leggi sulle inumazioni, redige con la mano un po’ tremolante (per l’età?) e con calligrafia un po’ demodé ma ancora in uso nel primo secolo una sorta di "bolla di accompagnamento necroforo", come i cartellini appesi ancor oggi all’alluce dei cadaveri negli obitori; un informale certificato di sepoltura che, visto lo scopo pratico, può essere steso su sparsi scampoli di papiro e vergato in fretta, con errori e incertezze ortografiche.
Frale riprende là dove la decifrazione si era arenata, lancia nuove ipotesi, corregge quelle vecchie, completa le lacune, ricorre ai vocabolari greco, latino ed ebraico e alla fine propone la sua lettura. Eccola: quel testo riferisce di un certo (I)esou(s) Nnazarennos che nell’anno 16 dell’impero di (T)iber(iou), una volta "deposto sul far della sera", (o)psé kia(tho), dopo essere stato condannato "a morte", in nece(m), da un giudice romano "perché trovato", mw ms’, secondo la denuncia di un’autorità che parlava ebraico (il Sinedrio?), colpevole di qualcosa, viene avviato a sepoltura con l’obbligo di essere consegnato ai parenti solo dopo un anno esatto, ossia nel mese di ada(r); c’è infine l’"io sottoscritto", o meglio "io eseguo", pez(o), del nostro umile burocrate.
Tutto torna, il puzzle va miracolosamente a posto. L’anno 16 di Tiberio è l’anno 30 dopo Cristo, il periodo è la primavera, l’ora è la nona, quella del Golgota, le parole superstiti di quella che potrebbe essere una copia del verbale del processo (un testo greco lungo ma illeggibile appare sotto il mento) coincidono con le espressioni che i Vangeli attribuiscono al Sinedrio di Caifa, quell’in necem sarebbe dunque una citazione delle parole della sentenza del romano Pilato; la mescolanza di citazioni in tre lingue non farebbe problema visto l’ambiente poliglotta in cui si muovono gli attori della Passione. Questo complicato puzzle di parole, conclude Frale, è «l’anello mancante» tra dati della storia e racconto del Vangelo. Tutto torna perfettamente.
Magari un po’ troppo, dottoressa? «Io ho incontrato un documento archeologico che parla della condanna e della sepoltura di un uomo di nome Yeshua Nazarani: a lui ho intitolato il mio lavoro. Se quell’uomo fosse anche il Cristo, il Figlio di Dio, non è compito mio stabilirlo»
È stato, per la verità, sotto i nostri occhi per secoli, impresso come una fotocopia sul telo più venerato della storia, la Sindone di Torino; ma per estrarlo di lì occorreva frugare il lino fibra per fibra, con sapere archeologico, storico, paleografico. Ciò che la dottoressa Frale assicura di aver decifrato, e come lo ha fatto, ce lo racconta lei stessa nel volume La sindone di Gesù Nazareno (Il Mulino, 375 pagine, 28 euro), sul quale prevedibilmente si scateneranno le controdeduzioni degli specialisti. Ma questo è il meno: se Frale vede giusto, allora si riapre clamorosamente, proprio alla vigilia della nuova ostensione torinese prevista in primavera, non solo la questione della datazione della Sindone, ma quella ben più scottante della sua autenticità come «la reliquia più splendida della Passione» (Giovanni Paolo II) e non più come semplice «icona veneranda» (cardinal Ballestrero).
La presenza di scritture sulla Sindone è nota da oltre trent’anni. Stringhe di caratteri latini greci e ebraici circondano il volto dell’Uomo, impresse in negativo: macchie chiare visibili solo dove si sovrappongono al colore rossastro che disegna l’immagine più controversa del mondo. Se ne accorse per primo nel 1978 il chimico Piero Ugolotti esaminando alcuni negativi fotografici del Telo, e sentendosi incompetente a decifrarle chiamò in aiuto il classicista Aldo Marastoni. Altri studiosi, francesi e italiani, recuperarono poi nuovi frammenti di vocaboli. L’insieme sembrava promettente: iber poteva essere un moncone di Tiberios, nome dell’imperatore regnante al tempo della Passione; l’apparente neazare suggeriva ovviamente un nazarenos, e quell’innece(m) poteva alludere alle circostanze di una morte. Il senso, però, restava un puzzle insolubile. A che genere di testo appartenevano quelle parole, ma prima ancora: come si stamparono sul lino?
Reperti che presentano ricalchi e impressioni delle scritture con cui vennero casualmente a contatto non sono rari in archeologia: tavolette d’argilla, persino strati di fango ci hanno trasmesso testi il cui supporto originario è andato perduto. Il metallo contenuto nell’inchiostro di un foglio venuto a contatto con la Sindone può aver rilasciato sul telo particelle poi "rivelate" dalla misteriosa reazione chimica che ha impresso l’immagine dei misteri. Ma di che foglio si trattava? Forse l’etichetta, la cedola, di uno dei reliquiari che custodirono la Sindone quando era già oggetto di culto? Ad ogni modo, quando nel 1988 la famosa e clamorosa prova del radiocarbonio stabilì per il Lenzuolo una data di nascita tardomedievale, l’interesse per la questione delle scritte crollò a zero: a chi poteva ormai interessare la presenza di complicati graffiti su una falsa reliquia?
Barbara Frale però è tra quanti non hanno mai creduto a quella datazione scientifica. Per lei, che ne ha tracciato la storia nel suo recente I Templari e la Sindone, il telo di Torino è il bizantino Mandylion di Edessa, trafugato durante il sacco di Costantinopoli del 1204, poi clandestinamente adorato dai monaci guerrieri. Dunque le scritte possono risalire ai primi secoli dell’era cristiana.
Devono, anche? Non mancherà chi accusi la ricercatrice di aver forzato le sue ipotesi per arrivare alla spiegazione più clamorosa. Lei lo mette in conto, e replica: «Non ho voluto dimostrare verità di fede. Io sono cattolica, ma tutti i miei maestri sono stati atei o agnostici, l’unico credente era ebreo. Il mio libro non si esprime sull’origine miracolosa o meno dell’immagine della Sindone. Fin dall ’inizio mi sono imposta, anche per disinnescare l’emozione che avrebbe potuto travolgermi, di lavorare come avrei fatto su qualsiasi reperto archeologico».
Frale procede per deduzione, confronto ed esclusione, come un detective. Impossibile, è la sua prima conclusione, che quelle scritte provengano da un testo scritto da cristiani; infatti, osserva, se oggi è abituale chiamare Gesù "il Nazareno", quell’appellativo diventò pressoché eretico per i fedeli dei primi secoli: troppo legato alla sola dimensione umana, terrena del Salvatore. «Sarebbe stata un ’offesa suprema scrivere Nazareno in un testo destinato al culto. Avremmo dovuto trovare invece Cristo: ma di quella parola sulla Sindone non c’è traccia». Quelle parole straordinariamente salvate dal ricalco, ne deduce, provengono da un documento pre-cristiano. E del tutto "laico". Parlano di Gesù dal punto di vista di chi lo considera solo un uomo. Un documento "gesuano", dunque, non "cristologico".
Ma a che scopo ne parlano? Il confronto con le sepolture coeve, lo studio delle procedure giudiziarie romane e dei regolamenti necrofori giudaici suggerisce alla fine questa ipotesi: un povero corpo crocifisso dopo una condanna poteva essere riconsegnato ai parenti solo dopo un anno di "purificazione" nella fossa comune; per identificarlo, evitando che si perdesse nel caos del sepolcreto di Gerusalemme, i necrofori utilizzavano cartigli incollati con colla di farina all ’esterno del sudario già avvolto attorno al cadavere, a incorniciarne il volto nascosto dalla tela. Corriamo avanti, alla ricostruzione finale proposta da Frale: un funzionario al servizio dell ’amministrazione romana, attingendo ai documenti del processo e nel rispetto delle leggi sulle inumazioni, redige con la mano un po’ tremolante (per l’età?) e con calligrafia un po’ demodé ma ancora in uso nel primo secolo una sorta di "bolla di accompagnamento necroforo", come i cartellini appesi ancor oggi all’alluce dei cadaveri negli obitori; un informale certificato di sepoltura che, visto lo scopo pratico, può essere steso su sparsi scampoli di papiro e vergato in fretta, con errori e incertezze ortografiche.
Frale riprende là dove la decifrazione si era arenata, lancia nuove ipotesi, corregge quelle vecchie, completa le lacune, ricorre ai vocabolari greco, latino ed ebraico e alla fine propone la sua lettura. Eccola: quel testo riferisce di un certo (I)esou(s) Nnazarennos che nell’anno 16 dell’impero di (T)iber(iou), una volta "deposto sul far della sera", (o)psé kia(tho), dopo essere stato condannato "a morte", in nece(m), da un giudice romano "perché trovato", mw ms’, secondo la denuncia di un’autorità che parlava ebraico (il Sinedrio?), colpevole di qualcosa, viene avviato a sepoltura con l’obbligo di essere consegnato ai parenti solo dopo un anno esatto, ossia nel mese di ada(r); c’è infine l’"io sottoscritto", o meglio "io eseguo", pez(o), del nostro umile burocrate.
Tutto torna, il puzzle va miracolosamente a posto. L’anno 16 di Tiberio è l’anno 30 dopo Cristo, il periodo è la primavera, l’ora è la nona, quella del Golgota, le parole superstiti di quella che potrebbe essere una copia del verbale del processo (un testo greco lungo ma illeggibile appare sotto il mento) coincidono con le espressioni che i Vangeli attribuiscono al Sinedrio di Caifa, quell’in necem sarebbe dunque una citazione delle parole della sentenza del romano Pilato; la mescolanza di citazioni in tre lingue non farebbe problema visto l’ambiente poliglotta in cui si muovono gli attori della Passione. Questo complicato puzzle di parole, conclude Frale, è «l’anello mancante» tra dati della storia e racconto del Vangelo. Tutto torna perfettamente.
Magari un po’ troppo, dottoressa? «Io ho incontrato un documento archeologico che parla della condanna e della sepoltura di un uomo di nome Yeshua Nazarani: a lui ho intitolato il mio lavoro. Se quell’uomo fosse anche il Cristo, il Figlio di Dio, non è compito mio stabilirlo»