venerdì 27 ottobre 2017
Il 26 ottobre 1871, nasce a Roma il poeta dialettale Trilussa. Massone o non Massone? Scoprilo qui
Trilussa e la Massoneria di A. Z.
Estratto da Hiram n. 10, ottobre 1986 – Soc. Erasmo, Roma
Carlo Alberto Salustri, detto Trilussa, fu un massone che non venne mai iniziato nell’Ordine. Per
questo motivo, che può sembrare paradossale, si ritiene interessante lumeggiare il personaggio e
i suoi rapporti con l’Istituzione, attraverso le cose che sulla stessa ha scritto, le cose che ad essa
lo avvicinano, fino, da ultimo, alla domanda di affiliazione che presentò oramai in prossimità
della morte.
Nel panorama della letteratura italiana narratori e poeti spesso si sono avvicinati alla Massoneria
sia direttamente che indirettamente. Taluni, appartenenti all’ordine, hanno riportato nelle loro
opere il frutto degli studi esoterici e della filosofia dell’Istituzione; altri pur non appartenendovi
hanno colto certi insegnamenti; altri ancora hanno deriso o contrastato la Libera Muratoria
assegnandola, nella più benevola delle formulazioni, a quelle attività dell’uomo un po’ superflue
e un po’ goliardiche. Alcuni attraverso lo sviluppo e la dinamica del loro pensiero hanno finito
con l’approdare all’Ordine ancora in età tale da portare un contributo di lungo periodo; altri si
sono formati, anche come uomini, all’ombra dei simboli muratori, taluni nel ricordo di passate
presenze negli avvenimenti risorgimentali, altri ancora attirati e, direi, attivati dalla ricerca
iniziatica che è la prerogativa principale della Libera Muratoria.
Del tutto anomala, rispetto ad altre situazioni presenti appunto tra i protagonisti della storia
letteraria italiana, appare la vicenda di Trilussa, poeta dialettale romano fiorito tra gli ultimi anni
dell’800 e la seconda metà del ’900. La decisione di richiedere l’ammissione alla Libera
Muratoria la matura in tarda età tanto che la domanda, che pure era stata accolta, non ha seguito
per la morte improvvisa del poeta. Ed è curioso come anche la nomina a senatore lo raggiunga
appena venti giorni prima della sua morte, il 21 dicembre 1950, quando ormai la vita gli aveva
dato tutto quello che un artista può desiderare compreso l’ultimo riconoscimento, appunto quello
di senatore a vita, per aver con le proprie opere illustrato la Patria, come dice la motivazione
firmata da Luigi Einaudi.
Trilussa, tuttavia, non era mai stato un compiacente osservatore delle vicende dell’Italia, ma le
aveva sempre trattate con quella ironia che nasceva da una sorta di comune buon senso popolare,
che pervade tutta la sua opera, quando aveva sorriso sulle guerre propiziatrici dell’impero, o
quando, senza eccessi e col sorriso sulle labbra di chi intravede, nelle umane vicende, il buffo e
talvolta inutile agitarsi dei piccoli che vogliono apparire grandi; colpisce il regime fascista senza
usare mai, però, il metro pesante della fustigazione o dell’invettiva. D’altronde nello stesso modo
aveva ironizzato, durante l’era liberal-democratica, verso quei governi, e poi anche verso i partiti
che andavano allora formandosi e che erano ovviamente agguerriti e rinchiusi nelle loro
ideologie nascenti, talvolta con riferimento al fasti e nefasti ottocenteschi e risorgimentali,
talaltra per esplicita certificazione di nascita dovuta alle incalzanti nuove esigenze della storia e
dell’umanità.
È il suo un modo di rappresentarsi al di sopra delle parti, è un modo, quasi giornalistico, di
raccontare la propria insofferenza in versi, insofferenza che non ha nulla di rivoluzionarlo, di
combattivo ad oltranza, ma che si stempera nella vita quotidiana e in questa trova origine e morte
alla propria esistenza.
Pur tuttavia la Patria riconosce in lui un suo figlio benemerito e lo nomina senatore, e Trilussa,
come nella sua poesia, ringrazia ed esce dalla comune forse anche questa volta con ironia e con il
sorriso sulle labbra, conscio della caducità delle cose della vita. 1 piccoli personaggi, la piccola
umanità pure vengono chiamati, attraverso la sua persona, a posizioni più alte, vengono innalzati
dal pianterreno della vita e loro viene riconosciuta una importanza nuova, quella importanza che
Carlo Alberto Salustri aveva già deciso di riconoscergli in qualche modo facendoli tutti
protagonisti della propria arte.
L’epoca in cui visse Trilussa, fu un’epoca di transizione e nello stesso tempo di assestamento
della società italiana e di quella europea più in generale, anche dal punto di vista politico ed
economico. Dalla presa di Roma ad opera del nuovo Stato italiano nel 1870, un anno prima della
nascita del poeta, fino alla Grande Guerra e poi con la conclusione della Seconda Guerra
Mondiale l’Italia e l’Europa trovarono l’assestamento che tuttora permane. Ma anche dal punto
di vista culturale movimenti, scuole e indirizzi di vario genere fiorirono apportando una ventata
di cambiamenti nel canoni dell’arte così come erano fino ad allora conosciuti.
Anche la Massoneria subì i suoi travagli, i suoi adattamenti, dal punto di vista statuale, che i
tempi proponevano, cambiando spesso anche proprio la qualità degli uomini subì, nel corso del
tempo, soprattutto in Italia, una lenta trasformazione che finì con il portarla al superamento di
antichi vincoli riferiti al passato, restituendola in pieno ad una tradizione più vicina alle
Obbedienze europee che non avevano, almeno con i propri uomini se non certamente come
istituzioni, dovuto affrontare una dura prova politica ed ideologica come quella risorgimentale.
Pure, ancora all’epoca della giovinezza del poeta, talune antiche ferite erano presenti nell’anima
dell’Istituzione la quale con forza continuava a contrapporre il “libero pensiero” alla sorda
conservazione che sotto sotto covava nella società italiana vuoi per intimo convincimento, vuoi
per millenaria educazione, vuoi per attento e opportuno calcolo politico dovuto anche
all’economia dei tempi che venivano vissuti. E ancora lo sbandierato “Libertà, Uguaglianza,
Fratellanza”, ereditato dalle vicende transalpine della fine del secolo precedente e portato e
adattato alle italiche venture, suonava da una parte come richiamo ad un nuovo ordine etico e
sociale e quindi politico ed economico, e dall’altra appariva come il vessillo del sovvertimento di
valori consolidati dal tempo, come immiserimento dello spirito, quasi la premonizione e la
preparazione all’avvento dell’Anticristo.
Tuttavia non era la sola Massoneria italiana propugnatrice di questo sovvertimento. Anzi
all’interno della stessa si agitavano due anime che avrebbero portato alfine alla scissione del
Grande Oriente d’Italia, proprio, tra le altre più interne ragioni, su un fatto di natura
politicosociale: quello dell’insegnamento religioso nelle scuole. Anche tra i nuovi partiti, che
andavano formandosi e che nascevano dalla crisi dell’antica distinzione tra Destra e Sinistra
storiche, alcune delle idee propugnate dal massoni andavano prendendo consistenza, anche se
contenuti e forme dovevano essere forzatamente diverse.
Trilussa visse quest’epoca e la rappresentò nella sua poesia non prendendo però veramente parte,
non facendosi partigiano né di un passato che poco conosceva, ma neppure del futuro che non
voleva immaginare né profetizzare, accontentadosi piuttosto di registrare con l’ironia più che con
il sarcasmo, lo stato delle cose, con l’arguzia, ma anche con la bonomia, la compostezza e la
rassegnazione dei popolo che sa di non essere sovrano e che non se ne lamenta, o se ne lamenta
con moderazione, ma desidera almeno non essere portato per il naso.
L’attenzione di Trilussa è per le cose di tutti i giorni, per le cose minute che sono la
rappresentazione in sedicesimo dei grandi avvenimenti e sconvolgimenti che finiscono però col
non cambiare in alcun modo lo stato di coloro che non hanno voce nelle decisioni. E infatti
l’anima che il poeta interpreta è sempre quella della buona piccola borghesia che, se pure ancora
legata agli ideali del Risorgimento, è tuttavia lontana dalle infatuazioni di ogni genere che i
tempi suggerirebbero, sensibile solo ai problemi e alle norme fondamentali della vita quotidiana.
Ma non una borghesia tutta romana, come tutto romano era stato il popolino irriverente ed
anticlericale del Belli, né una vera e propria borghesia che oramai sembrava aver già acquisito un
senso della nazionalità e della appartenenza allo Stato italiano con tutti i suoi problemi e le sue
aspirazioni, quale era quella emersa dalla poesia del Pascarella di “Villa Glori” e di “Storia
nostra”. Piuttosto era una borghesia impiegatizia e di varia etnicità, calata a Roma al seguito del
trasferimento della capitale e dello Stato amministrativo, una Buzzurropoli in cui dissidi e
conflitti Trilussa avvertiva come puri e semplici riflessi di una precaria situazione sociale e
morale.
Era la stessa società che, con riferimento alle sollecitudini e alle vicende del proprio piccolo
mondo, sarebbe rappresentata più tardi da Pirandello, il quale avrebbe spinto proprio questi
dissidi e questi conflitti di cui Trilussa, dicevo prima, aveva gia avvertito l’esistenza, alle soglie
di un conflitto gnoseologico ed ontologico fra sogno e realtà.Il mezzo della poesia in vernacolo
di per sé consente maggiori possibilità alla satira che non quello in lingua. E in modo particolare
quel certo “spirito”,che da sempre è parte del costume dei napoletani e dei romani, trova una sua
nobilitazione proprio nella poesia in vernacolo. Talvolta però l’ispirazione liricizzante appanna la
vena satirica di un Salvatore Di Giacomo, mentre più raramente, per non dire quasi mai, accade
nella poesia romanesca, ed è in questo contesto che va collocato Trilussa, appunto, nella storia
della poesia dialettale romana.
Se il Belli è la voce autentica, se pure genialmente portata sul piano dell’universale, della plebe
romana del periodo più oscuro e disastroso dell’agonizzante potere temporale, di una collettività
cioè priva di ogni illuminazione spirituale, chiusa in un opaco destino senza apparente uscita; se
nel Pascarella si registra il decisivo spostamento verso il popolo da cui erano usciti Monti,
Tognetti e Giuditta Tavani Arquati; Trilussa ci rappresenta la romanità nuova, la collettività
impiegatizia che legge il giornale, che crede di intendersi anche dei problemi politici
fondamentali, che pretende d’interpretarli e risolverli sulla base dei suoi elementari bisogni e
delle semplici ma solide sue pregiudiziali etiche, che risulta dalla fusio ne fra i vecchi “romani de
Roma” e il buzzurrame piovuto nell’Urbe che tutta via, negli spiriti migliori, trova anche il
tempo per una riflessione, se non proprio culturale e spirituale, attenta almeno e ben disposta
verso quelle manifestazioni che con la cultura e lo spirito appaiono avere una qualche
connessione, come la Istituzione libero-muratoria alla quale finiscono per aderire e non solo per
utile tornaconto personale.
La riprova di tutto ciò è nel carattere di tenue coloritura esteriore che il dialetto romanesco ha
nella compagine linguistica di Trilussa, in cui tocca il vertice quel processo di progressiva
attenuazione, di regolarizzazione e raddolcimento che il romanesco palesa nella poesia a partire
dai successori del Belli; le parolacce così sistematicamente frequenti in Giuseppe Gioacchino e
non rare neanche nel Pascarella, sono invece rarissime in Trilussa, il quale parla come
normalmente parla il romano oramai civilizzato (ciovile direbbe appunto Trilussa), che ha
ricevuto una certa educazione e si esprime all’usuale livello della piccola borghesia ben
costumata.
Ed ecco, quindi, che anche nel linguaggio usato, Trilussa si appropria di una universalità che
manca alla satira di altri poeti dialettali.
Questa universalità del mondo poetico di Trilussa; questi travagli dei suoi personaggi, siano essi
uomini o gli animali delle favole, che finiscono con l’essere problemi di fondo dell’umanità, detti
con il tono sornione e quasi distaccato di chi non vorrebbe se ne capisse l’intima importanza, di
chi sembrerebbe interessato soltanto al motto di spirito, che pure c’è, allo scherzo liberatorio, ma
non troppo; questa universalità, dicevo, fa di Trilussa l’uomo, il poeta vicino agli ideali della
Libera Muratoria.
Nonostante appaia nelle sue opere talvolta come insofferente a tutto quello che lo circonda, per
principio contrario a re, repubblica, socialismo, clericalismo, democrazia, anarchia, tuttavia la
sua anima non è “qualunquista”. Anzi ironizza anche su quel movimento affermatosi in Italia
negli ultimi anni di questo dopoguerra che si faceva chiamare “Uomo qualunque-:
“Omo qualunque” spesso fa er tribbuno
pe diventà quarcuno
ma quanno semo ar dunque
è un tribbuno qualunque
dice il poeta in una inedita poesia riportata da Giuseppe D’Arrigo nel suo “Trilussa”. Certamente
non trova nelle istituzioni umane, o per meglio dire, negli uomini che le rappresentano, quelle
doti etiche alle quali il poeta fa continuo riferimento e che vorrebbe, invece, fossero tra tutti gli
uomini patrimonio comune. Ed anche in questa aspirazione, in questa ricerca e in questa
denuncia, sembra richiamare gli ideali della Massoneria al di là delle dirette chiamate in causa
rappresentate da i quattro sonetti “Li frammassoni de jeri” e “Li frammassoni de oggi”, dove
certamente non colpisce tanto le idee della Frammassoneria, quanto l’applicazione delle stesse da
parte di massoni che allora come oggi dovevano aver dato una rappresentazione della
Massoneria certamente poco felice. Tuttavia è interessante annotare che l’ultima terzina del
primo sonetto de “Li frammassoni de oggi”:
Perché la Fratellanza Universale
che ce riuniva tutti in una fede
finì co la chiusura der locale.
è riportata dal poeta, autografa e firmata, sul frontespizio del “Libro dei Rituali” di Salvatore
Farina edito a Roma nel 1946 dalle Edizioni Piccinelli, ed è evidentemente riferita alle vicende
del ’25 quando il Fascismo sciolse la Massoneria e si accanì particolarmente col Grande Oriente
di Palazzo Giustiniani.
Ma anche in altre poesie, non specificatamente interessanti la Libera Muratoria, continuamente
ricorrono non solo concetti che richiamino quelli propugnati dalla Massoneria, ma anche
deliberatamente poesie intitolate alla “Fratellanza”, alla “Libertà”, all’ “Uguaglianza”, al “Libero
Pensiero”.
C’è pure in Trilussa questa aspirazione all’universalità e all’uguaglianza, questo riconoscimento
dell’universalità e dell’uguaglianza che in qualche modo si realizza, che non solo trovi
espressione nelle cose quotidiane e di piccolo respiro, ma soprattutto spazi nelle grandi tragedie
che sconvolgono l’Umanità, come la guerra. In “Fra cent’anni” del 1915 da “Lupi e agnelli” il
poeta, a proposito della Prima Guerra Mondiale che sta sconvolgendo l’Europa, afferma:
Da qui a cent’anni, quanno
ritroveranno ner zappà la terra
li resti de li poveri sordati
morti ammazzati in guerra,
pensate un po’ che montarozzo d’ossa
che fricandò de teschi
scapperà fòra da la terrà smossa!
Saranno eroi tedeschi,
francesi, russi, ingresi,
de tutti li
paesi.
O gialla o rossa o nera
ognuno avrà difeso una bandiera;
qualunque sia la patria, o brutta o bella,
sarà morto per quella.
Ma lì sotto, però, diventeranno
tutti compagni, senza
nessuna diferenza.
Nell’occhio vóto e fonno
non ce sarà né l’odio né l’amore
pe’ le cose der monno.
Ne la bocca scarnita
non resterà che l’urtima risata
a la minchionatura della vita.
E diranno fra loro: – Solo adesso
ciavemo pe lo meno la speranza
de godesse la pace e l’uguajanza
che cianno predicato tanto spesso.
Tutti saranno divenuti compagni, in pace tra loro, uguali nella morte, la nera signora che anche il
massone Antonio de Curtis, in arte Totò, ne “A livella” dirà che tutti rende uguali e senza
differenze.
E ancora in “Bolla de sapone” Trilussa che sembra una volta di più quasi chiudere un discorso in
maniera amara, invece anche qui l’aspetto apparentemente negativo della morale finisce per
essere, ancora una volta, una indicazione del pensiero trilussiano tutto improntato al
ridimensionamento, è vero, del diverso, alla indicazione del caduco, ma anche alla certezza che
tutto in un certo momento sarà livellato, riportato all’uguaglianza, sia pure in una “lagrima de
pianto”.
Lo sai ched’è la Bolla de Sapone?
L’astuccio trasparente d’un sospiro.
Uscita da la canna vola in giro,
sballottolata senza direzzione,
pe’ fasse cunnolà come se sia
dall’aria stessa che la porta via.
Una farfalla bianca, un certo giorno,
ner vede quela palla cristallina
che rispecchiava come una vetrina
tutta la robba che ciaveva intorno,
j’agnede incontro e la chiamò: – Sorella,
fammete rimirà! Quanto sei bella!
Er cielo, er mare, l’arberi, li fiori
pare che t’accompagnino ner volo:
e inentre rubbi, in un momento solo,
tutte le luci e tutti li colori,
te godi er monno e te ne vai tranquilla
ner sole che sbrilluccica e sfavilla.
La Bolla de Sapone je rispose: -
So’ bella, sì, ma duro troppo poco.
La vita mia, che nasce per un gioco
come la maggior parte delle cose,
sta chiusa in una goccia... Tutto quanto
finisce in una lagrima de pianto.
Ma questo pessimismo di Trilussa, a mio avviso, non è distruttivo. Questo rendersi ragione della
negatività di cui è corredata la vicenda dell’Umanità; questo senso del “pantarei“-, del transeunte
e della caducità delle cose non è nichilismo ottuso e cieco senza speranza. Non è la malattia
mortale- che colpisce l’esistenzialismo disperato e ateo che ancora corre nel pensiero
occidentale. Nasconde invece la speranza che alla fine l’Umanità sia riscattata, che almeno le
sofferenze servano a migliorare il mondo. Qua e là tra il sorriso ironico e la satira pungente,
anche se non proprio graffiante, tra le favole dove gli animali si dimostrano e si riconoscono
migliori dell’uomo, anche se talvolta con l’amaro in bocca, spunta la speranza di Trilussa nel
momento più inaspettato a conferma che la sua visione del mondo non è del tutto negativa.
Ed è in fondo questa speranza che concettualmente la Libera Muratoria consegna e affida al
propri aderenti, spingendoli a lavorare “per il bene e il progresso dell’Umanità”. E questo
Trilussa lo sa benissimo. La paura poteva essere che non tutti avessero compreso bene il
precetto, e che anzi non volessero capirlo, e che limitassero la loro adesione alla Massoneria al:
... giochetto de le deta...
Nei rapporti poetici con la Massoneria legati al quattro sonetti gia citati, non può essere presa in
seria considerazione la teoria, per così dire statistica, che avanza Ettore Paratore nel due scritti
pubblicati dall’Istituto di studi romani in occasione del Centenario della nascita di Trilussa.
Argomenta, infatti, il Paratore che a “fronte di ventiquattro espliciti pamplhets poetici del
periodo prefascista contro la retorica socialdemocratica e sempre rilevanti un preciso intento
politico e un intento sempre sfottitorio al danni degli ideali socialisti e delle infatuazioni per la
democrazia più sinistrorsa”, “solo quattro o cinque”, invece, “sono quelli in cui la frecciata al
fascismo si configura in maniera evidente”. E ancora che il breve ciclo formato dal due sonetti
intitolato “I frammassoni de oggi” che è stato addirittura composto negli anni del fascismo,
“dopo i provvedimenti presi contro la società dei Grande Architetto, è irridente le attività della
Massoneria, con quella inimitabile tendenza smitizzatrice e ridimensionatrice che lo
contraddistingue e che è il segno infallibile del suo equilibrio e della sua onestà, Trilussa dà un
colpo al cerchio e uno alla botte, facendo le sue ironie su chi si sbracciava a salutare
romanamente ‘pro bono pacis’. Ma è evidente che chi ne fa le spese in misura più massiccia è
l’ambiente massonico”. E con questa statistica numerica ritiene di aver giustificato una classifica
dell’insofferenza trilussiana che vedrebbe la Massoneria precedere il fascismo nell’antipatia di
Trilussa.
Sarebbe veramente curioso pensare che un uomo della cultura di Ettore Paratore non avesse
inteso effettivamente il pensiero di Trilussa, se non fosse altrettanto nota, oltre la sua sensibilità
critica e culturale, la sua appartenenza anche politica a ben individuati ambienti culturali della
destra conservatrice, passato di volta in volta dal più moderati a quelli più estremistici, che lo
hanno portato a ridimensionare quanto, in verità troppo spesso, la più recente critica, anche di
estrazione marxista, ha voluto attribuire a Croce e proprio a Trilussa circa il loro atteggiamento
contrario al regime durante il periodo fascista, considerandoli le due uniche voci solitarie ancora
capaci di parlare liberamente nel generalizzato conformismo del culturame imposto dal
Minculpop. Certamente i nostri non sono stati gli unici, né la loro è stata una voce
particolarmente rumorosa e avversa, particolarmente contraria al regime in sé, dato anche lo
scarso interesse per quella cultura dai due dimostrato, e per quel tanto di snobismo culturale, ma
anche per la sincera e schietta valutazione della propria posizione e, soprattutto per Trilussa, per
quel senso tutto romano dell’ironia e della capacità di credere che lo scherzo e la battuta,
quand’anche si dimostrassero veritieri della realtà, non possono essere causa di un reato o
accusati di irrispettosità oltraggiosa sia pure da un regime come quello fascista.
Tuttavia al di là delle polemiche diciamo ideologiche, mi preme sottolineare come proprio dai
quattro sonetti intitolati alla Massoneria di ieri e di oggi, emerga invece una posizione dei poeta
che non è senz’altro negativa della Istituzione, mentre da altre, forse anche dimenticate dal
Paratore oltre le quattro o cinque citate, appare evidente l’insofferenza di Trilussa per quanto il
regime andava costruendo. Mentre la satira dei sonetti “massonici” non colpisce direttamente
l’ideologia, che anzi trova modo di apprezzare, ma irride anche bonariamente all’atteggiamento
di coloro che vi appartengono, forse perché appunto borghesucci ministeriali che nulla hanno a
che vedere con il “generone” dei vecchi borghesi romani, nelle poesie ispirate al regime fascista
capovolge completamente lo sfottimento e colpisce più l’ideologia che non le persone, così come
aveva già fatto a proposito delle imprese coloniali e delle velleità imperiali dell’Italia della fine
dell’Ottocento e dei primi del Novecento. Nel sonetto “L’aquila romana” del 1911, l’anno delle
magniloquenti celebrazioni del cinquantenario dell’unità, termina con la famosissima chiusa
posta in bocca alla lupa:
Pur’io, va là, ciò fatto un ber guadagno
a fa’ da balia a Romolo! Accicoria!
Se avessi da rifà la stessa storia
invece d’allattallo me lo magno.
Nel primo sonetto de “Li framassoni de jeri”, scritto, come il secondo, sempre nel 1911, il poeta
ironicamente lamenta che il Grande Architetto poco più assiste i lavori della Massoneria, cioè a
dire che i massoni non seguono più i lavori come avrebbero dovuto. Ed anche nel secondo, oltre
a ribadire la presenza del Grande Architetto, rinforza il discorso sulle attività, invece, degli
uomini massoni, che non sempre sono adeguate alle idealità della Istituzione.
Che credi tu? Ch’a le rivoluzzioni
fossero carbonari per davero,
còr sacco su le spalle e er grugno nero?
Ma che! E’ lo stesso de li frammassoni.
So’ muratori, sì, ma mica è vero
che te vengheno a mette li mattoni!
Loro so’ muratori d’opinioni,
cianno la puzzolana ner pensiero.
Tutta la mano d’opera se basa
ner demolì li preti, còr proggetto
de fabbricaie sopra un’antra casa.
Pe’ questo so’ chiamati muratori
e er loro Dio lo chiarneno Architetto...
Ma poco più j’assiste a li lavori!
Dove è evidente la riprovazione del comportamento più che dell’idea, perché oramai anche la
guida del Grande Architetto poco assiste al lavori che nel tempo presente hanno deviato dalla
tradizione antica.
E siccome er Dio loro è libberale,
ma gira gira è sempre er Padreterno,
ne vìè ch’er frammassone va ar governo
ce trova er prete e ce rimane eguale.
Se sa, l’ambizzioncella personale
Je strozza spesso er sentimento interno:
è un modo de pensà tutto moderno
e in questo nun ce trovo ‘sto gran male.
Se er frammassone cià li tre puntini,
er prete cíà er treppizzi, e m’hai da ammette
che armeno in questo qui je s’avvicini:
vedrai che troveranno la maniera
de sarvà capra e cavoli còr mette
un puntino per pizzo e... bona sera!
Sottolinea che l’ambizione personale dei singoli vince il sentimento che dovrebbero avere i
massoni. Li scusa, non trovandoci poi cosi gran male con il moderno modo di pensare.
L’aggettivo “moderno” assurge qui quasi a contrapposizione con l’aggettivo “antico”, ma nello
stesso tempo serve appunto a ribadire che qualcosa di nuovo, di diverso c’è, ma tra gli uomini.E
nei successivi due sonetti de “Li frammassoni de oggi”, torna sull’argomento lamentando sempre
la differenza tra i puri e veri massoni e quelli, invece, che ora costretti allo scoperto,
continueranno a comportarsi in modo difforme dagli ideali che sostengono solo a parole.
Un anno fa, quann’ero frammassone,
se strignevo la mano d’un fratello
me ricordavo der tinticarello,
ma lo facevo senza convinzione.
Annavo in Loggia pe’ giocà a scopone,
a sett’e mezzo, a briscola, a piattello,
con uno scopo solo, ch’era quello
de poté mijorà la condizzione.
Ma da quanno ce chiusero la Loggia
nun trovi più nessuno che ce crede,
nun trovi più nessuno che t’appoggia.
Perché la Fratellanza Universale
che ce riuniva tutti in una fede
finì co’ la chiusura del locale.
Nella prima terzina del sonetto, che in genere avvia in Trilussa la conclusione della morale, poi
ampiamente disimpegnata nella seconda, e che rappresenta il pensiero del poeta, come la
seconda rappresenta la constatazione che trae dalla quotidianità, lamenta che più nessuno ci
crede e ti appoggia, ognuno si ritrae soprattutto per mancanza di quella coerenza che il poeta più
di ogni altra cosa condanna.
Er frammassone d’oggi, s’è prudente,
pe’ sta tranquillo e fa’ la vita quieta,
invece del giochetto de la deta
s’adatta a salutà romanamente.
Così che ce capischi? Un accidente.
Finché l’associazione era segreta
se sapeva dall’a fino a la zeta,
nome e cognome d’ogni componente.
Invece mò, che non è più un mistero,
Chi riconosce er frammassone puro?
Chi riconosce er frammassone vero?
Chi riconosce er frammassone esperto
che, nun potenno lavorà a lo scuro,
te dà le fregature a lo scoperto?
Anche in questo sonetto la prima terzina mette in rilievo il massone puro e vero e lo contrappone
a quello “esperto” del primo verso della seconda terzina, quello che potendola dare al coperto,
probabilmente confuso nel nuovo regime, la “fregatura” la dà ora scopertamente. E tra questo
“alo scuro” e a “lo scoperto” consiste proprio lo lato che registra Trilussa tra comportamento e
idea.
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, quando dopo la caduta del fascismo e la
liberazione in Italia riprendono le attività anche culturali, e pure i lavori della Massoneria
riprendono “forza e vigore”, Trilussa, sollecitato da amici massoni, come d’altronde è costume
dell’Istituzione, chiede l’affiliazione che viene senz’altro accettata e che purtroppo soltanto la
morte impedisce di sancire ritualmente. E d’altronde la sua non è una richiesta senza coscienza, è
sorretta dalla conoscenza, almeno libraria, delle cose della Massoneria, e dalla certezza della
buona fede delle persone che lo invitavano.
Virtualmente, però, Trilussa, che aveva per tutta la vita creduto nel “Libero Pensiero”, non
certamente quello sbandierato da coloro che lo invocavano a giustificazione del proprio
tornaconto e di una malintesa libertà faccendiera; che aveva avuto sempre presente il trinomio
massonico e si era sforzato di applicarlo coerentemente nella propria vita; Trilussa che,
nonostante l’ironia e il pessimismo nei confronti dell’uomo, non era stato mai un ateo, Trilussa,
dicevo, può essere annoverato nella schiera di coloro che sono o sono stati massoni a buon diritto
e non solo perché la sua domanda era stata formalmente accettata.