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giovedì 24 marzo 2016

Il libro sacro nel grado di Maestro del Marchio


di Marco Galler

Il volume della Legge Sacra

Questo lavoro è dedicato all'approfondimento dei passi e dei riferimenti biblici sui quali il rituale di Maestro del Marchio è fondato; rispetto alle succinte riflessioni esposte al seminario di Almenno San Salvatore, tenterò qui di delinearne un "quadro" più completo e, se mi riuscirà, maggiormente ragionato.

I Lavori del grado si svolgono con il Libro aperto su Matteo XX, che narra la parabola degli operai mandati a lavorare nella vigna; tale passo, recitato per intero dal Venerabilissimo, fa tra l'altro parte integrante del rituale di iniziazione. In esso si racconta del proprietario di una vigna che consegna in tempi diversi, a più operai, il lavoro nel suo campo, concordando con ciascuno una giusta retribuzione; e del malcontento e del reclamo di coloro che più hanno lavorato, quando a fine giornata si accorgono che a tutti viene pagato lo stesso salario. Si deve qui intendere, ovviamente, che il proprietario della vigna è Dio, gli operai siamo noi, e la retribuzione ha carattere spirituale.
Ho sempre pensato a questa parabola nei termini di distanza, abissale, tra la giustizia divina e la giustizia degli uomini (nella cui ottica appare insensato premiare allo stesso modo il maggiore ed il minor lavoro). Una lettura solo un poco più attenta mi ha però condotto ad una "scoperta" sorprendente, che può anche assumere carattere di conferma per colui che ne possa aver già "sentore": essa è che in realtà non esistono due giustizie, diverse, una degli uomini e una di Dio; bensì una, una sola giustizia, la Sua. E se le cose stanno così, la difficoltà degli operai – la nostra, difficoltà - consiste in definitiva nella sola capacità di conoscere, e riconoscere, quest'unica giustizia.
Anche a cercarla, nella parabola non v'è traccia alcuna di ingiustizia. Ciò che illumina è la risposta data dal proprietario della vigna ad uno degli operai, in special modo l'inizio: «Amico mio, io non ti faccio alcun torto; non abbiamo pattuito un denaro? Prendi quello che ti è dovuto e vattene». Le lamentele degli operai non sono causate da inadempienza del datore di lavoro, né parziale né totale, verso alcuno di loro; egli rispetta pienamente l'accordo pattuito con ciascuno. Le lamentele nascono piuttosto dal sentimento di invidia provato da alcuni operai verso altri di loro ritenuti più fortunati, in ragione di un arbitrario confronto operato tra il caso proprio e quello altrui.
Mi pare si possa qui scorgere con discreta evidenza l'espressione di due principi, uno di divisione ed uno di unità: il primo è naturalmente assegnato al mondo degli uomini, caratterizzato com'è dalla tendenza alla separatività, alla difesa di una effimera esistenza, con tutto il bagaglio di illusori diritti che le fanno da contorno; il secondo è quello di Dio, che tratta tutti allo stesso modo, non riconosce superiorità né alterità di sorta, e paga ciascuno con la stessa identica 'moneta'. Nel testo non viene contestata la realtà del molteplice (più operai), né della diversità (il maggiore ed il minor lavoro); solo, vien posto l'invito a superare questo campo di separazione (individuale), per giungere ad appropriarsi di un punto di vista più universale, secondo il quale 'tutto è uno'. Ne dà conferma il rituale, ponendosi come fa nell'ottica del principio divino, laddove chiarisce quale debba essere l'insegnamento da trarre da questo racconto: «Che fra noi regna l'assoluta [sottolineo: 'assoluta'] uguaglianza. Né per anzianità, né per cariche, alcuno di noi ha maggiori diritti o minori doveri».
Se poi ci si sofferma sul "prendi quello che ti è dovuto e vattene", possiamo anche operare un collegamento con uno dei due fondamenti che caratterizzano l'iniziando al grado, il quale si rivela dapprincipio per la sua impostura: mi riferisco alla richiesta di un salario non dovuto (l'altro fondamento, per inciso, consiste nella presentazione di una pietra non lavorata da lui). Le condizioni nei due casi si potranno fors'anche considerare diverse, ma la 'morale', se vogliamo dir così, appare sostanzialmente la medesima: accettare quel che ci vien dato, senza lamentele, e non chiedere nulla che non ci spetti, sembrano molto le due facce di una stessa medaglia.
E per finire con la parabola della vigna, ecco cos'altro aggiunge il proprietario nella sua risposta all'operaio: «Io voglio dare a questi ultimi quanto ho dato a te. Non mi è lecito fare quello che voglio dei miei beni?». Come non riflettere che tutto quel che siamo, tutto quel che abbiamo, sia interamente dovuto alla Volontà del Principio Unico, o, se si vuol dire diversamente, Sua manifestazione? I 'beni', egli dice, sono suoi; se è così, come non compenetrarsi fin nel midollo della prospettiva per cui 'tutto è dono'? Di che lamentarsi, dunque! «O vedi di mal occhio che io sia buono?».

Veniamo ora alle letture veterotestamentarie recitate dal Venerabilissimo durante il compimento da parte del candidato dei quattro viaggi iniziatici. Dal Libro di Ezechiele, XLIV (44):
1° viaggio: «Egli mi fece ritornare per la via della porta esterna del santuario che si trova di fronte all’Oriente. Ma essa era chiusa».
2° viaggio: «Jehova mi ha detto: questa porta resterà chiusa; essa non sarà aperta e nessuno vi entrerà, perché Jehova, Dio d’Israele, vi è entrato. Essa resterà chiusa».
3° viaggio: «Solo il principe eminente potrà sedersi per mangiare il suo pane davanti a Jehova. Egli entrerà dal vestibolo della porta del Tempio ed uscirà per la stessa strada».
4° viaggio: «Jehova mi ha detto: Figliolo dell’Uomo, sforzati, con tutto il tuo cuore [mark well], a vedere con i tuoi occhi e ad ascoltare con le tue orecchie tutto quello che sto per dirti sulle disposizioni della Casa di Jehova e delle sue leggi. Tu farai attenzione con tutto il cuore all’entrata della Casa ed a tutte le uscite del santuario».
Queste letture, insieme ai viaggi cui sono intimamente legate, rese solenni dalla progressione dei colpi di maglietto delle tre Luci (da uno a quattro, numero simbolo del grado), ritengo possano con buona ragione venir considerate il 'cuore' stesso dell'iniziazione a Maestro del Marchio.
Nel rituale, esse si trovano tra due 'momenti' che a mio parere ne evidenziano la centralità. Ciò che precede è la fase di preparazione del candidato: scoperta la sua duplice impostura - come ricordavo: presentazione di una pietra non sua, e richiesta di un salario non dovuto -, egli viene ricondotto alle cave per ricevere istruzione "sulle regole alle quali obbediscono gli operai onesti"; reintrodotto quindi nel Tempio avvolto da quattro spire di una cordicella rossa, gli viene simbolicamente 'aperto' il cuore con altrettanti colpi di scalpello e mazzuolo. Mentre quel che avviene successivamente è la comunicazione dei segreti del grado, ma ancor più e soprattutto, il giuramento prestato all'ara, ginocchia a terra e mani incrociate sul compasso, sulla squadra, e sul Libro Sacro.
E cosa ci dicono queste quattro letture? Proviamo a dare una risposta.
Anzitutto, si potrebbe dire che non noi abbiamo scelto la Massoneria, ma la Massoneria ha scelto noi: «Egli mi fece ritornare per la via della porta esterna del santuario». Poi, che la via da noi intrapresa è, fra tutte, la più ardua e difficile, perché la sua mèta è, fra tutte, la più ardua e difficile (ché anzi: a rigor di termini, essa non ha in realtà comune misura con alcun'altra impresa): «Questa porta resterà chiusa; essa non sarà aperta e nessuno vi entrerà, perché Jehova, Dio d’Israele, vi è entrato». Quindi, che questa chiamata è davvero un'elezione, un dono che il Cielo nasconde alle moltitudini: «Solo il principe eminente potrà sedersi per mangiare il suo pane davanti a Jehova». Infine, che quel 'pane' da mangiare al cospetto di Jehova è nientemeno che 'divina conoscenza', Dio stesso che parla, e squaderna l'intero Universo – la Sua Casa - al nostro intelletto: «Jehova mi ha detto: Figliolo dell’Uomo, sforzati, con tutto il tuo cuore, a vedere con i tuoi occhi e ad ascoltare con le tue orecchie tutto quello che sto per dirti sulle disposizioni della Casa di Jehova e delle sue leggi».

Affrontando i passi biblici legati ai quattro viaggi, m'è incorso di parlare di centralità, di 'cuore' del rituale iniziatico; ciò nondimeno, non può esser posto in discussione che il senso ultimo della promozione - come viene chiamata - a Maestro del Marchio, debba individuarsi nel ritrovamento di quella pietra né rettangolare né quadrata, dapprima gettata tra gli scarti, eppure destinata a coronare la principale cupola del Tempio: la chiave di volta.
Nel rituale del grado abbiamo due passi della Bibbia che vi si riferiscono; non essendovene poi altri da trattare, m'avvio a concludere così queste riflessioni.

Il primo riferimento alla chiave di volta lo troviamo all'inizio dei lavori, allorché il Venerabilissimo, prima di dichiarare aperta la Loggia, si rivolge ai Compagni con una esortazione che conclude in questo modo: «Nel Libro Sacro sta scritto: "Sappiate che Io ho posto in Sion una preziosa pietra angolare, una solida fondazione; la pietra che non contava nulla per i costruttori diventa la chiave di volta del Tempio"». Il passo biblico riportato si divide in due distinte affermazioni; prendiamole brevemente in esame.
La pietra preziosa di cui si parla, indipendentemente dal riconoscimento degli uomini, è detta essere 'una solida fondazione'; ebbene, come prima cosa possiamo rilevare che tale qualità di 'fondazione', con l'annesso rafforzativo, viene attribuita alla pietra che nella costruzione è destinata ad occupare il punto più elevato. Una fondazione che sta in alto: tale è la chiave di volta. Come non pensare immediatamente al simbolo dell'albero rovesciato, ed alle sue radici celesti?
Vien detto poi dei costruttori, del loro gettar via quel che in seguito si rivela, anche letteralmente, fondamentale. Non è la pietra a mutare di qualità, né funzione: essa è e rimane il termine del Sacro Tempio, il punto focale su cui l'intero edificio poggia, e grazie al quale vive; e ciò, è da intendere, anche quando non venga riconosciuta, e si ritrovi abbandonata tra gli scarti. A cambiare sono invece i costruttori: da ottusi e ciechi, pensano di poter edificare la Casa del Signore soltanto con pietre rettangolari e quadrate, contrassegnate da un marchio conosciuto (ovvero: con le sole forze e capacità umane, individuali); accortisi però che il lavoro così concepito non può bastare, che il Sacro Tempio non potrà in tal modo venir mai ultimato, si mettono alla ricerca, e ri-trovano, quella sola ed unica pietra capace di conferire unità e completezza, e senso, alla costruzione divina (ovvero: non si giunge a Dio, che per mezzo di Dio).

Che la chiave di volta sia una 'pietra celeste', come si è implicitamente inteso, non può quindi già dubitarsi; ne abbiamo ad ogni buon conto ulteriore e definitiva conferma nell'ultimo passo biblico che ci rimane da considerare, inserito nel discorso che il Venerabilissimo rivolge al candidato allorché la pietra, da perduta che era, è ritrovata. In esso si afferma esplicitamente che la chiave di volta viene direttamente da Dio, non solo; è detto anche che essa vivifica e rinnova segretamente l' 'edificio' costruito secondo le regole dell'Arte: «A colui che vincerà, Io darò da mangiare della manna nascosta, Io gli darò una pietra bianca e su questa pietra sarà scritto un nome nuovo, che nessuno conosce, solo colui che la riceverà».
Sarà poi nell'Arco Reale, che la pietra scartata dai costruttori troverà giusta e perfetta collocazione, ma è qui, nel grado di Maestro del Marchio, che avviene il suo ritrovamento. Con essa, riceviamo nutrimento di un insegnamento più nascosto; e una nuova identità, affrancata da ogni ulteriore scarto e abbandono, perché è la – ritrovata - chiave di volta del Tempio.

Tiziano Busca illustra il simbolismo del Marchio in ebraico