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giovedì 14 aprile 2016

Tentare l'Opera del Sapiente


di Aurora Distefano



«Queste cose odia il Signore, anzi sette ne ha in orrore: gli occhi alteri, la lingua mendace, le mani che versano sangue innocente, il cuore che formula pensieri iniqui, i piedi che si affrettano a correre al male, il testimone falso che proferisce menzogne e colui che semina discordia fra fratelli». (Proverbi 6, 12-19).
Taluno potrà ravvisare in questo brano, alcuni elementi dell’ottuplice sentiero (Retta Comprensione, Retta Motivazione, Retta Parola, Retta Azione, Retta Vita, Retto Sforzo, Retta Consapevolezza, Retta Concentrazione), tanto più se associato con il seguente, tratto liberamente dalla lettera di Giacomo: «Il rito (lavoro, servizio)  puro e completo dinanzi a Dio (eloqim) nostro padre è questo:  visitare gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi dalla cattiva parola e puri dal mondo».
Di fatto questa è una indicazione chiara, ben nota in certe istituzioni speculative, per inclinare con chiarezza all’azione retta, ma non senza aver prima lavorato su se stessi.
Occorrono almeno sette lavaggi nel Giordano, per sbiancare la pietra, ma in questi tempi in cui lo spirito sembra che venga ucciso, e l'intelletto soffocato, ci vuol bene chi si prenda cura del debole, così come indicato dalla più ampia tradizione, ed in particolare nella Torah, ove è più volte scritto di lasciare parte del proprio raccolto per la vedova, l'orfano e lo straniero.
Si legge: «Quando mieterai il tuo campo e avrai dimenticato un covone non tornerai indietro a raccoglierlo... quando scuoterai il tuo olivo non tornerai a raccogliere ciò che vi è rimasto... quando vendemmierai la tua vigna, non tornerai a prendere il rimanente, ma rimarranno per lo straniero, l'orfano e la vedova» (Devarim 24-19 e succ.), poiché anche tu fosti servo nella ristrettezze (Egitto), con che si può intendere nel restringimento, nella povertà intellettuale, ecc.. Ancora, al capitolo 26 è detto di mettere in un cesto (Teneh=Kli) davanti a Dio la decima per il sacerdote, anche se prima bisogna aver saziato lo straniero, l'orfano e la vedova, e che sarà maledetto chi lede i loro diritti.

L’ offerta di un decimo (omer - ayn-mem-resh) di Efa, è anche l’Omer di manna che venne messo dentro un' urna (tzintzennet) e posto davanti (dentro) all'arca dell'alleanza. (Esodo 16,33). Se rapportiamo tutto ciò con l'Albero Sephirotico, possiamo intendere l'occuparci di Malkhut, oppure,  considerando i due aspetti di Kether (uno rivolto verso Ain Soph, l’altro verso il basso, tale offerta può indicare ancora la parte del raccolto intellettuale e spirituale che riportiamo nel mondo, così come la parte di noi che offriamo all'infinito (GADU), ponendoci tuttavia noi stessi come recipienti. Infatti l'Omer man, con Omer = reiq, vuoto, e MAN(na) inteso come azione del dare, può rappresentare il vuoto potenziale, il punto del paradosso di Zenone che sempre resta fra due punti, infinitamente accogliente. Nello Zen si parlerebbe di svuotare la tazza, per poter contenere il té che viene offerto, oppure possiamo immaginare questo atto, che è altresì un dono, come porre uno spazio “vuoto” nel cuore dell’uomo (l’urna, o Kli, il recipiente) quando si dona, per poter ricevere; cioè affinché esso possa accogliere quello che la ragione vuole ma non può penetrare2.
Il dono è pertanto solo  apparente privazione: “ciò che dai è tuo per sempre”.
Tanto più che il vuoto dentro e fuori dal vaso, in Realtà sono identici.

Vediamo ancora che l'espressione omer man si può sostituire, dato che ha lo stesso peso semantico, con “maskil, colui che possiede sekel (intelletto)". L’offerta posta nell’urna, sarà altresì tutto l’essere col suo intelletto.  Possiamo sintetizzare fin qui che, per poter agire in modo puro, offriamo vuoto e intelletto, che altresì sono la capacità di ricevere e penetrare, e alchemicamente volatilizziamo lo spesso (il dono forma il “vuoto”), e, rendendo lo spesso spessore, solidifichiamo il volatile (l’intelletto Sekel=afar, polvere).

Ma tutto ciò, vien fatto di chiedersi, fino a quando? Quando l’Opera finisce?
L'espressione completa HaOmer Man, è paria a Neshima, respiro; l'ultimo o il primo, il respiro è la vita stessa, e diviene simbolo della fedeltà fino alla morte al nostro dovere (dharma) in questa vita.  «Kabir dice: Studente dimmi, che cos’è Dio? È il respiro nel respiro», e così chi è autorizzato (gran sacerdote)  a pronunciare il Nome tetragrammato, compie l’atto supremo che equivale alla morte, se inconsapevole, e alla vita, poiché la Parola è Vita.
Tale dunque è l'Opera del vero sapiente che “apre la terra e genera salute per il popolo”, che persegue la via dell'umile, versando tutto ciò che è in suo potere (una decima) per l'orfano e la vedova, che saranno intesi come il fratello (ciascun L.M. è figlio della Loggia), e parimenti il suo nemico (oiev, nemico e a'chi, fratello mio, hanno lo stesso peso semantico). Infatti è anche scritto:
«Se trovi il toro del tuo nemico o il suo asino smarrito abbi cura di ricondurglielo» (Shemot 23,4).
«Quando vedrai il toro e l'agnello di tuo fratello smarriti non fingere di non vederli, li dovrai ricondurre a tuo fratello» (Dev 22,1)..